Il Settecento bresciano/1: lo Stato veneziano di terra

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1 b - giovane gentiluomo.jpgVenezia, si sa, è una città straordinaria, forse per questo siamo abituati ad essere indulgenti nei suoi confronti e a ritenere idilliaca la storica convivenza con Brescia nei quasi quattro secoli di vita in comune.
Se però ci soffermiamo a osservare il momento del suo declino alla fine del Settecento, la rapidità con cui buona parte della nobiltà bresciana si schierò sul versante francese evidenzia inequivocabilmente un attrito sotterraneo che doveva covare tra le due città già da molto tempo. La decadenza della Serenissima influenzò pesantemente il suo rapporto con la nostra città. Ecco in che modo.



Nel 1796 la vittoriosa campagna d'Italia del giovane generale corso Napoleone Bonaparte portò nel Nord del nostro paese l’onda lunga della rivoluzione francese. Esplose la voglia dei bresciani di affrancarsi da una Venezia sempre più in decadenza e la notte del 17 marzo 1797 trentanove congiurati riuniti nel Palazzo Poncarali di corso Magenta (dove oggi c’è il liceo Arnaldo) prepararono l'insurrezione giurando di "vivere liberi o morire".
La città, dove la guarnigione veneta restò chiusa nelle caserme, fini subito in mano ai ribelli, mentre in provincia (nelle valli e sul Garda) per cacciare i veneziani dovettero intervenire i soldati francesi. La piccola repubblica indipendente di Brescia durò otto mesi: si dotò di stendardo tricolore, battè moneta e armò anche una guardia nazionale. Nell'ottobre 1797, con il trattato di Campoformio fra Austria e Francia che ridusse Venezia sotto il dominio degli Asburgo, la nostra città entrò a far parte della nuova Repubblica Cisalpina.
Ma a questi eventi non si era arrivati per caso. Cos’era cambiato da quando i nobili bresciani nel 1426 avevano giurato entusiastica fedeltà alla Serenssima? Le premesse stanno tutte nel lento ma inesorabile declino veneziano, che culminò con la crisi del Settecento. Eccone il racconto. In quattro puntate.

di Sergio Re

Venezia, si sa, è una città straordinaria, forse per questo siamo abituati ad essere indulgenti nei suoi confronti e a ritenere idilliaca la storica convivenza con Brescia nei quasi quattro secoli di vita in comune.
Se però ci soffermiamo a osservare il momento del suo tragico declino, la rapidità con cui buona parte della nobiltà bresciana si schierò sul versante francese evidenzia inequivocabilmente un attrito sotterraneo che doveva covare tra le due città già da molto tempo.

L’entusiasmo per il Leone di San Marco e la decadenza
1 a - anonimo - pianta della città del 1722.jpg
È vero che Brescia, per mano
di 284 cittadini, cum bono et pleno consensu giurò fedeltà nel 1426 al Serenissimo Veneto Dominio – come rogato dal notaio Malvezzi – ma bisogna ripercorrere il seguito di questa storia, per individuare le difficoltà nelle relazioni politiche ed economiche intessute tra le due realtà sociali, quella bresciana e quella veneta, che portarono a favorire l’esplosione degli avvenimenti napoleonici.
Senza almeno un accenno alla complessità di queste relazioni e al senso di frustrazione che permeava l’aristocrazia locale, si stenterebbe a capire quella spontanea e fervorosa adesione di buona parte della nobiltà e della borghesia al vento novatore che soffiava da occidente e che, nonostante la florida situazione di esenzioni e di privilegi, sospinse l’antico alleato di Venezia ad atterrarne gli stendardi e ad abradere dagli stemmi cittadini anche il solo ricordo del leone di San Marco.

I bresciani del Maggior Consiglio
Ma più precisamente chi erano questi nobili che si erano sollevati e da chi o da che cosa ricevevano il crisma della loro autorità? Era tutta nobiltà di blasone o traeva l’ascendente e la dignità da istituti locali?
In questo senso ci soccorre chiaramente un documento del 1776 nel quale i deputati cittadini definiscono senza ombra di dubbio che nobile di questa città non si considera chi non è di famiglia ascritta a questo Consiglio.
E qui va detto che i deputati si riferiscono chiaramente ai componenti del Maggior Consiglio, che in città era lo strumento propulsore della vita amministrativa e che già alla fine del secolo XV si era chiuso a riccio, dosando parsimoniosamente l’accesso di forze nuove, per tutelare in modo esclusivo l’ereditarietà del titolo.

Prima regola: non aver mai lavorato

L’egoistica preoccupazione emerge chiaramente nel seguito dello stesso documento che elenca i requisiti indispensabili de’quali deve far prova chiunque desidera far acquisto della nobiltà (…) trasmissibile a suoi discendenti.
1 b - giovane gentiluomo.jpgL’aspirante deve avere genitori bresciani (o almeno originari del Serenissimo Dominio), nati da un matrimonio legittimo, deve avere più di trent’anni di età, la sua famiglia deve aver goduto di stabile dimora in Brescia da almeno cinquant’anni e soprattutto né l’eventuale aspirante, né alcuno della sua famiglia, doveva essere infetto di arte meccanica, il che significa che non doveva aver mai lavorato.

Una casta chiusa, preoccupata dei propri privilegi
Soddisfatti questi ed altri requisiti – il cui tenore si manteneva sulla medesima caratura – la candidatura poteva venir accettata e sottoposta alla votazione del Maggior Consiglio dal quale si poteva ottenere una approvazione solo con la maggioranza di almeno i due terzi dei voti.
Quali le probabilità e quali i costi di una simile operazione si può immaginare, se si pensa che il Maggior Consiglio era anche detto il Consiglio dei 500, dal numero massimo dei suoi componenti, che comunque nel 1796 erano 422.

Nobiltà quindi come classe sociale a
tutti gli effetti chiusa, quasi come una casta, che difendeva con determinazione i privilegi del gruppo, che cercava di insinuarsi in tutto il territorio e di proporsi quale tramite di governo con Venezia, mentre accanitamente difendeva i privilegi individuali, moltiplicava fraudolentemente le esenzioni, si defilava e soprattutto scaricava – mediante un sistema fiscale perverso – la maggior parte della esosa tassazione veneta sulle spalle del contado e in definitiva di una classe socialmente ed economicamente più debole.

Taglieggiati dal Fisco della Serenissima
Va detto a questo proposito che proprio nel XVIII secolo la situazione tributaria del territorio era giunta ad un grado estremo di infamia.
Gli estimi erano lo strumento attraverso il quale Venezia proporzionava le gravezze o le taglie – come si chiamavano al tempo le imposte ordinarie e quelle straordinarie – in funzione dei redditi individuali.
Purtroppo il sistema fiscale era largamente approssimativo e l’esazione non si basava su un rapporto diretto tra fisco e contribuente. Venezia si limitava a reclamare di volta in volta dalla camera fiscale cittadina l’ammontare complessivo dell’imposta per un determinato periodo, gli importi richiesti venivano quindi suddivisi tra i vari corpi contribuenti che comprendevano la città, il territorio, il clero e le terre separate, in funzione degli estimi globali.
I singoli corpi provvedevano, sempre con lo stesso criterio, a redistribuire il carico fiscale agli eventuali organismi inferiori, fino a raggiungere l’ultimo livello della vera e propria suddivisione tra i soggetti delle proprietà che dovevano – sempre basandosi sui propri estimi – coprire l’intero ammontare della cifra.

Gli estimi aggiornati ogni cinquant’anni
1 c - piazza del duomo.jpg
È chiaro che, per un’equanime distribuzione delle imposte, gli estimi
avrebbero dovuto rispecchiare il più possibile la realtà patrimoniale di ogni cittadino e che per questo si sarebbero dovuti aggiornare con tempestività, seguendo fedelmente con la registrazione i movimenti e i trasferimenti delle proprietà.
La periodicità degli aggiornamenti, almeno nel Cinquecento, ebbe una cadenza di quindici o venti anni, un lasso di tempo discreto e ragionevolmente sollecito, garanzia quindi di una certa equità. Ma molti ci misero poco a capire il meccanismo e a protrarre artificiosamente i tempi di aggiornamento degli estimi, che nel Settecento per esempio – vennero riveduti solamente due volte.
Il fatto è che, nel lasso di tempo che intercorreva tra un aggiornamento e quello successivo, la geografia delle proprietà mutava spesso sensibilmente, soprattutto in presenza di una situazione politica incerta come quella settecentesca.
I proprietari del contado tendevano per esempio a richiedere lo status di cittadini, riconoscimento – difficile, ma non impossibile – che al prestigio della nuova immagine aggiungeva la fruizione di notevoli agevolazioni ed esenzioni.

La proprietà delle terre dal contado alla città
Ma anche i cittadini, già proprietari di terre
nel contado, cercavano di estendervi i loro possedimenti impegnando i grossi capitali frutto dei lucrosi commerci. Già il Da Lezze nel suo Catastico del 1609, notava che se a metà del secolo XV gli abitanti del contado erano proprietari di circa i 2/3 dei loro territori, all’inizio del XVII secolo la loro quota di proprietà si era ridotta a 1/4 del totale.
L’effetto perverso di questo "inurbamento" delle proprietà territoriali del contado fu duplice. Direttamente depauperò i residenti del territorio, sottraendo la terra al loro lavoro, ma indirettamente costituì anche una sorta di mimetizzazione delle terre il cui valore patrimoniale seguiva il proprietario nel territorio di residenza, dove sarebbe però comparso solo nell’estimo successivo.
Ciò di fatto scaricava sulle spalle degli altri proprietari il prelievo fiscale ancora commisurato ai vecchi estimi, mentre il crescente fabbisogno di denaro e la consapevolezza di non riuscire a rastrellarlo con le imposte dirette, sollecitava Venezia a inasprire la tassazione sui consumi, con una moltiplicazione di dazi che incidevano maggiormente sulle spese della parte meno abbiente della società.

E c’era anche il trucco di tagliare il valore catastale
1 e - caccia.jpgQuesto meccanismo iniquo, subdolamente avviato e reso operativo dalle
classi abbienti, venne inoltre molto spesso integrato dai proprietari con il ricorso a una vera e propria frode.
Favoriti dalla difficoltà di ricorrere a riscontri catastali, nel giro dei diversi passaggi i titolari delle proprietà dequalificavano artificialmente i valori delle proprie pertinenze, sia registrandole per importi inferiori sia, più semplicemente, dimenticando di applicare i valori correttivi di aggiornamento.
Queste truffe, favorite dal prestigio e dall’autorità dei soggetti fiscali, vennero chiaramente denunciate a Venezia dal Lando, rettore in carica nel 1611, il quale nella sua relazione metteva chiaramente in luce che molti di quelli che godono privileggi, sono andati dilatando a poco a poco l’essentioni loro et altri ancora senza havere realmente privileggi, si sono usurpati sotto vari pretesti, titoli di essenti et portato innanti colla autorità di intimorire li daciari, che hanno taciuto et assentito col silentio al pregiudicio, senza fare da loro la essatione, non havendo questi ardire di parlare dove si tratti di persone potenti.

Brescia, ottimo investimento per Venezia
Si può osservare che di fatto, nella sua articolata burocrazia – che pure aveva attuato complicatissimi sistemi di garanzie e di controllo per impedire nella stessa Venezia il consolidamento di supremazie particolaristiche – ai nobili cittadini bresciani non fu mai concessa la totale e insindacabile supremazia sul territorio.
Nella realtà però – pur mediata dalle garanzie offerte ai nobili del contado che a tempo debito ne saranno riconoscenti a Venezia – la città, rappresentata dai suoi nobili, venne gradatamente acquisendo una sempre maggiore capacità di controllo economico sul circondario regionale.
L’effetto purtroppo non riuscì ad avere natura propulsiva, ma solamente elusiva di quei controlli, dazi e balzelli che furono l’antiquato sistema di vigilanza economica e politica che la burocrazia veneta seppe istituire nella terraferma.
D’altro canto, proiettatosi nell’entroterra dopo un’infinita serie di comprensibili e controverse diatribe tra due partiti, dei quali uno nasceva dalla secolare dimestichezza con il mare e culminava nell’adagio coltivar el mar e lassar star la tera, la città lagunare vi trovò – almeno nel caso bresciano – un cospicuo interesse economico.
Brescia si rivelò suddita fedele oltre che investimento lucroso, se è vero che rendeva al fisco veneziano un quarto di tutti i possedimenti di terraferma. Tuttavia Venezia non ricambiò la città lombarda con altrettali cortesie, trattandola né più, né meno, alla stessa stregua dei territori che aveva conquistato con le armi.

I mercanti di mare, ignoranti di terra e d’industria
1 d - dazi.jpgCittà marinara e soprattutto città di mercanti,
repubblica oligarchica, ormai sull’onda del declino quando – poco dopo l’annessione del bresciano – i flussi delle merci si spostarono dal Mediterraneo orientale all’Oceano Atlantico, all’apertura delle vie verso l’occidente americano Venezia con il suo pesante apparato burocratico non riuscì a valorizzare l’industriosità bresciana supportandola con scelte e decisioni moderne.
Che cosa ne potevano capire i mercanti veneziani della campagna? Il patrizio veneziano era uomo di mare e non aveva vocazione industriale, era diventato nobile accumulando ricchezze con il commercio ed arrivava alla politica in età avanzata, quando non poteva più permettersi di valicare i mari per curare gli interessi dei suoi fondachi orientali.
La campagna era per lui solo un investimento di capitali, una bella villa, l’emblema di uno status sociale. Che ne sapevano questi uomini delle industrie manufatturiere, delle cartiere, delle fucine e delle fabbriche d’armi che la secolare tradizione triumplina poteva fornire? Che ne sapevano della costante necessità di mantenere efficienti le vie di comunicazione terrestre?

Da qui il declino delle aziende bresciane
Così, sull’onda di queste ignoranze si intensificarono sempre più veti, proibizioni e un inutile appesantimento dei dazi che – come conseguenza – comportò soltanto un intenso traffico di contrabbandi, intesi sia come transito di merci al di fuori dei canali ufficiali, sia come accordi fraudolenti con le guardie daziarie che, facilmente corruttibili, agevolavano l’elusione dei controlli.
Il sistema purtroppo non fece che incoraggiare lo spopolamento delle aziende bresciane, assecondando il trasferimento delle maestranze più intraprendenti verso altri territori.
A Brescia i traffici mercantili, in prevalenza sostenuti dalla produzione di seta, ferro e conseguentemente armi, sarebbero stati naturalmente rivolti verso il nord, ma anche questa aspirazione venne sistematicamente mortificata.
E mal tollerarono i bresciani il forzoso ricentramento degli interessi sull’Adriatico che, difficile da raggiungere lungo una rete stradale sconnessa e priva di manutenzione, si rivelava ogni giorno più dispendioso per il moltiplicarsi delle imposizioni daziarie
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(1/continua)

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