Così nacque (in 40 anni) la ferrovia Venezia-Brescia-Milano

Più informazioni su

stazionebs1.jpgLa prima linea a vapore dedicata al trasporto delle persone era nata in Inghilterra tra Liverpool e Manchester nel 1830, subito seguita dal Belgio che aveva realizzato la Malines-Bruxelles nel 1835. E il 29 aprile 1836 venne presentata all'imperatore Ferdinando d'Austria la richiesta di autorizzazione per una linea ferroviaria a vapore tra Venezia, Verona, Brescia e Milano. Per costruirla, tra mille difficoltà tecniche e politiche, ci vollero 40 anni. Al termine dei quali il Nord Italia era molto cambiato.


di Sergio Re

stazionebs1.jpg

"I sottoscritti, obbedientissimi sudditi di Vostra Maestà, come incaricati dalla Commissione Veneta fondatrice della progettata strada di ferro da Venezia a Milano, mettono ai piedi del Trono la presente supplica, colla quale umilmente implorano per la Suddetta Commissione dalla Clemenza di Vostra Maestà la concessione di un privilegio esclusivo per tutte le provincie per cui transitasse l’accennata Strada e laterali, durante 50 anni, e per la costruzione della medesima a doppie rotaie di ferro".

Il documento è del 29 aprile 1836, la commissione in oggetto aveva precocemente affrontato un problema innovativo nella tecnica dei trasporti in Italia. Per la verità i tempi erano maturi, molte rotaie erano già state posate in tutta Europa, soprattutto per il trasporto di merci e materiali, ma praticamente da poco il mezzo aveva compiuto il grande passo e si era emancipato dalla trazione animale, soppiantata dalle più potenti locomotive a vapore, così come aveva abbandonato l’idea che il progresso ottenuto con i trasporti su rotaia in qualche modo non fosse idoneo o adeguato per il trasporto delle persone. Da subito invece il pubblico ne aveva molto apprezzato la celerità, producendo guadagni tutt’altro che disprezzabili per gli investitori.

I PIONIERI DEL VAPORE
La prima linea a vapore dedicata al trasporto delle persone era nata in Inghilterra tra Liverpool e Manchester nel 1830, subito seguita dal Belgio che aveva realizzato la Malines-Bruxelles nel 1835, mentre i francesi – che pur disponevano di una rete abbastanza estesa (ben 266 chilometri di rotaie) – non si decidevano ancora ad abbandonare la trazione a cavalli e ad uscire dall’ambito angusto del solo trasporto di merci.
lineami-ve3.jpgAnche l’impero austro-ungarico aveva in esercizio una discreta rete ferroviaria, e proprio questo faceva ben sperare agli intraprendenti investitori italiani i favori della Maestà Imperiale. Ma la loro fortuna fu che, come la Camera di Commercio veneziana, anche Vienna fosse estremamente interessata ad attirare verso l’Adriatico tutte le merci che da sempre Milano preferiva dirottare verso il porto di Genova, malgrado si trattasse di territorio sabaudo.
Ma per questo bisognava superare le non poche obiezioni della macchina burocratica austriaca, pignola, puntigliosa e sospettosa, garantendo non indifferenti sicurezze economiche, tecniche, amministrative, tenendo conto degli innumerevoli veti dei rigidi protocolli militari e probabilmente anche lottando contro la sicura opposizione del servizio postale, che all’epoca vedeva nel treno un pericoloso concorrente.

IL TRACCIATO DELLE SEI CITTA'
lineami-ve2.jpgIn ogni caso l’esperienza italiana era innovativa
, per la notevole lunghezza della tratta messa in cantiere e per le numerose difficoltà di natura tecnica, legate da una parte alla scelta preventiva di entrare immediatamente in esercizio con macchine a vapore e dall’altra alla complessa natura orografica dei territori da attraversare.
Le diverse soluzioni prospettate si prestarono subito ad un ampio dibattito che si accese con scalpori e animosità, suscitando accuse e proteste di ignoranza o di grettezza culturale.
Tra i diversi tracciati proposti, due si presentarono immediatamente come quelli fondamentali: un percorso meridionale che incontrava città come Rovigo, Mantova, Cremona e Pavia e non doveva affrontare eccessivi ostacoli orografici – che aveva però il difetto di essere già servito dalla naturale via d’acqua del Po, un avversario lento, ma molto economico e quindi altamente competitivo – e un altro percorso più settentrionale, potenzialmente più remunerativo che in modo diretto o comunque con derivazioni mirate poteva toccare territori densamente popolati e soprattutto ricchi di attività economiche, quindi molto vantaggioso nel confronto del servizio alle merci e alle persone.
Purtroppo il tracciato settentrionale, detto anche delle sei città (Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Milano cui forse si sarebbe anche potuto aggiungere Bergamo), avrebbe dovuto attraversare il territorio pedemontano, con ostacoli naturali di grande impatto economico, tra cui il più complesso era sicuramente quello delle colline moreniche a sud del Lago di Garda.

L'INCARICO A UN INGEGNERE VENEZIANO
milanigiovanni.jpgLo studio di massima, dal quale era partita fin dal
1835 la commissione composta da 29 membri (suddivisi in due sezioni rispettivamente di cinque investitori veneziani la prima e l’altra di ventiquattro milanesi) che avevano versato 30.000 lire austriache per ciascuna sezione, aveva cautamente avanzato una via mediana, prevedendo un progetto suddiviso in quattro rettifili interconnessi: il primo tra Venezia e Mestre, il secondo che sfiorando Padova attraversava la campagna tra Lonigo e Cologna giusto nel mezzo tra i Colli Berici e i Monti Euganei, da qui il terzo rettifilo raggiungeva Volta Mantovana e l’ultimo in linea retta da Volta Mantovana toccando Calvisano e Orzinuovi arrivava direttamente a Milano.
Già la prima scelta del tracciato accese un vivacissimo dibattito e tra le indistinte voci prevalse, con molto buon senso, quella di Carlo Cattaneo che giudicò inaccettabile la via mediana perché "con zelo eremitico fuggiva a dritta e a sinistra l’ombra di ogni civico recinto" e propose (nonostante le gravose opere di ingegneria che presumibilmente avrebbero potuto raddoppiare il preventivo) la rettificazione del tracciato riducendo sensibilmente il percorso e portandolo a intersecare le operose città di Vicenza, Verona e Brescia.
L’eco di questi dibattiti rimbalzava ancora tra fogli periodici, fascicoli e libelli – molte volte anche con toni tanto accesi da divenire aggressivi secondo il costume del tempo – che già la commissione, incominciò a porsi il problema di un autorevole coordinatore dei lavori. Dopo attente valutazioni e non poche discussioni, dopo le perplessità della sezione milanese che avrebbe preferito suddividere la tratta in due tronchi, assumendo in proprio la responsabilità di quello lombardo, la commissione, pur consapevole che al momento i tecnici più preparati nel merito erano sicuramente stranieri (tedeschi, belgi o inglesi), concluse – con una certa riluttanza dei lombardi – di conferire l’incarico all’ingegnere veneziano Giovanni Milani.
Si trattava sicuramente del tecnico italiano più competente, tant’è che dovettero andare a cercarlo a Lubecca dove al momento si trovava, impegnato in un tour europeo incominciato ben quattro anni prima per andare a conoscere e a studiare le diverse novità nel campo delle installazioni ferroviarie.
Il tono della lettera che gli fu indirizzata era austero e farcito di quella retorica nazionalista che solo pochi anni dopo avrebbe spinto gli italiani a lottare per l’indipendenza. "Sarebbe veramente confortante – si può leggere nel documento – il vedere concepita e diretta da un Ingegnere Italiano la prima grandiosa opera di questo genere sorta ad aggiungere nuova gloria d’incivilimento a questa nostra bella Italia".

UN PRIMO INVESTIMENTO DI 50 MILIONI DI LIRE
lineami-ve1.jpg
L’opera come abbiamo detto era veramente innovativa
e Vienna nel 1837 autorizzò la costituzione della società che si munì di uno statuto e si fregiò del titolo altisonante di Imperial Regia Privilegiata Strada Ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta. La sede fu stabilita a Verona, città territorialmente baricentrica, ma la struttura fu comunque suddivisa in due sezioni, quella di Milano e quella di Venezia. La vendita delle azioni riscosse da subito un grande successo e gli investitori non solo si precipitarono ad acquistare i 50 mila titoli da mille lire l’uno, ma molti iniziarono anche una speculazione che portò rapidamente ad un notevole rialzo del valore del titolo.
locomotivarocketdel1829.jpgNel frattempo l’ingegner Milani, interrotto il suo tour tecnico-culturale, era rientrato in Italia e si era insediato a Verona. Il compenso pattuito per il suo lavoro ammontava alla rispettabile somma di 5 mila fiorini annui (circa 15.000 lire austriache, un operaio qualificato nello stesso periodo raggiungeva a malapena le 500 lire austriache) che gli furono computati a far data dal giorno della sua partenza da Berlino, più l’alloggio gratuito e le spese di funzionamento (legna per il riscaldamento, candele per l’illuminazione della casa, dei relativi uffici e spese di cancelleria che venivano rimborsate a piè di lista).
Non appena giunto a Verona si mise immediatamente al lavoro per stabilire nel dettaglio il percorso più congruo dal punto di vista tecnico ed economico della ferrovia che – secondo la sua esperienza – non doveva presentare pendenze superiori al 3 per mille e curve con raggio inferiore ai 700 metri. Anche lui optò per il tracciato settentrionale che – salvo aggiustamenti per rispettare i parametri prefissati – rispettava quello cosiddetto delle sei città, terminando con quel ponte spettacolare (della non indifferente lunghezza di 3.547 metri) che bisognava gettare sulla laguna per raggiungere Venezia.
Fu peraltro questo ponte ad innescare da subito una seria animosità nelle assemblee poiché Milano in un primo tempo sembrava proprio intenzionata ad addossarne i costi per almeno i due terzi alla città lagunare, ma alla fine prevalse il buon senso e non se ne parlò più.

TORRI DI VENTI METRI SU TUTTO IL PERCORSO
Dal punto di vista attuativo Milani suddivise
l’intero percorso in undici tronchi, ciascuno dei quali fu assegnato a due ingegneri per il rilievo topografico; fece erigere un numero imprecisato di torri in legno tralicciate di altezza variabile tra i 20 e i 30 metri, sulle quali si potevano accendere fuochi o installare altri mezzi di traguardo, che – dislocate a distanze variabili tra i dieci e i trenta chilometri – fungevano da linea di mira e facilitavano l’orientamento dei rilevatori.
Si trattava di tracciare sul terreno tra i due capoluoghi una striscia della larghezza di 37 metri che sarebbe stata espropriata, per costruirvi un terrapieno della larghezza di 8 metri e dell’altezza approssimativa di 3 metri. Tra le altre preoccupazioni – con larghezza di vedute – Milani curò l’edificazione di due ampie officine nelle stazioni di testa, adibite alla manutenzione del materiale rotabile e dell’armamento di linea, e si preoccupò di scegliere un congruo numero di persone di grande affidabilità (ingegneri, tecnici, operai) da inviare presso le migliori ferrovie europee già in esercizio per un periodo di istruzione, in modo da assicurarsi personale adeguato sia per l’esercizio della struttura italiana, sia come istruttori del numeroso personale da avviare al lavoro.

PERCHE' FU ESCLUSA BERGAMO
La linea ferroviaria che uscì da questo progetto
esecutivo era a due binari e aveva complessivamente uno sviluppo di 290 chilometri che, almeno nelle intenzioni, sarebbero stati percorsi dai treni in un tempo massimo di 9 ore, contro le 36 impiegate dalla diligenza. Rilevanti problemi di natura topografica e orografica avevano invece costretto Milani a escludere dal percorso della dorsale la città di Bergamo, unita al tracciato principale solo tramite una bretella che si innestava sulla linea all’altezza dell’abitato di Treviglio.
milano-monza.jpgSi trattava di una soluzione che penalizzava indubbiamente l’economia bergamasca e che la città orobica decise di non ingoiare senza colpo ferire, anche se veramente era dettata dalla enorme lievitazione dei costi di esercizio che le limitate potenze delle locomotive disponibili all’epoca avrebbe richiesto per trasportare fino a Bergamo quanto doveva semplicemente compiere il tragitto tra Brescia e Milano.
La questione, in sé già abbastanza complessa, venne ulteriormente complicata dall’iniziativa dell'ingegner Giovanni de Putzer della ditta Holzhammer che, nello stesso anno 1838, inviò a Vienna la richiesta del "privilegio per la costruzione di una strada a rotaie di ferro da Milano a Monza" che gli fu accordato l’anno successivo.
I bergamaschi colsero la palla al balzo e – senza por tempo in mezzo – si attivarono per ottenere dall’imperatore l’autorizzazione a prolungare la tratta da Monza a Bergamo.
La situazione era piuttosto ingarbugliata, ma una cosa era certa, il De Putzer era uno speculatore e, avendo fiutato lauti guadagni ci si era buttato senza indugio, tanto che aveva incominciato ad emettere azioni della sua ferrovia già prima di ottenere il rescritto imperiale. Questa fretta contrastava con le inveterate abitudini viennesi – soprattutto sui territori non austriaci – che raccomandavano invece di procedere con i piedi di piombo.
Tutti questi contrattempi purtroppo significarono enormi ritardi soprattutto a carico della linea Milano-Venezia, che finì per ottenere l’autorizzazione solamente nel 1840; quasi contemporaneamente però la capitale austriaca pose il veto alla realizzazione del collegamento tra Monza e Bergamo. Si riaccesero allora gli animi e fu così riaperto il caso del tracciato tra Brescia e Milano mentre ovviamente i bergamaschi si accaloravano per farlo transitare dalla città orobica. E questo naturalmente significò un’ulteriore battuta di arresto per i lavori della dorsale ferroviaria padana.
Con amarezza il Cattaneo dovette osservare l’anno successivo (1841) che mentre la Milano-Monza era già in esercizio, ancora si avviavano controversie e si stavano spendendo polemiche senza aver dato un solo colpo di badile sulla tratta Milano-Venezia, mentre erano già passati cinque anni da quando la Commissione lombardo-veneta aveva inviato la petizione all’Imperatore Ferdinando.

TROPPE PRESSIONI, E MILANI SE NE ANDO'
Da questione di principio e da oggetto di contesa
civile, il problema si trasformò rapidamente in disagio economico. Non avendo ancora messo in servizio nemmeno un chilometro di linea, la società non aveva avuto occasione di realizzare utili ed era quindi ancorata al solo capitale sociale ricavato dalla vendita delle azioni che però continuava ad assottigliarsi.
locomotivasmallow del1849.jpgUna iniezione di capitali viennesi – politicamente effettuata dal governo per inserire lo zampino nella storia di questa ferrovia – si rivelò però quanto mai deleteria poiché gli interessi austriaci si misero di traverso e, invece di rappacificare gli animi, sembrava che soffiassero sul fuoco, fomentando i dissidi nei già rugginosi rapporti tra le due direzioni italiane e tra queste e Bergamo.
L’ultimo atto dell’incresciosa vicenda fu la creazione di una commissione, voluta da Vienna e presieduta dall’avvocato Castelli di Milano, per mediare la questione del tracciato tra Brescia e Milano, che alla fine optò per soddisfare la richiesta di Bergamo. L’ingegner Milani, che aveva coscienziosamente riveduto tutto lo studio e non era il tipo da farsi pestare i piedi, convinto che la variante compromettesse la remuneratività di tutta l’iniziativa si rifiutò di sottostare a questa imposizione e non solo se ne andò sbattendo la porta, ma non accettò più alcuna delle mediazioni da varie parti intraprese per fargli riassumere l’incarico di direttore generale dei lavori.
Praticamente non volle più saperne della Milano-Venezia e la commissione, dopo alcuni mesi di vani tentativi, si vide a malincuore costretta ad inviargli una lettera di licenziamento. Il nuovo direttore generale nominato fu l’ingegner Duodo, un veneziano che ovviamente diede notevole impulso al tratto veneto dei lavori il cui inizio – con la posa della prima pietra – si ebbe il 25 aprile del 1841. Il tratto lombardo restò invece come congelato, almeno fino a quando la questione bergamasca non venne autorevolmente risolta da Vienna con parere negativo. Solo a questo punto – dopo essere ritornati al progetto originale del Milani – fu possibile dare il via ai lavori.

IL PRIMO TRATTO: LA MESTRE-PADOVA
lineami-ve4.jpgEntro la fine del 1842 venne finalmente messo in esercizio
il tratto Mestre-Padova e alle tante nei primi mesi del 1843 si aprirono anche i cantieri della Milano-Treviglio e della imponente stazione di testa nella capitale lombarda. L’evento era solenne e fu propagandato con dovizia di mezzi, forse anche perché si trattava di una vittoria nei confronti dei tanti che avevano remato contro l’inizio dei lavori in terra lombarda, primi tra tutti i bergamaschi che continuavano a sperare contro ogni ragione e poi i veneziani che – cavalcando questa divisione – brigavano per dirottare tutti i finanziamenti verso la loro tratta e soprattutto nella costruzione di quel ponte che si rivelò un pozzo senza fondo.
Gli introiti della Mestre-Padova nei primi mesi d’esercizio furono comunque assai lusinghieri e superiori alle aspettative, il costo del biglietto per la corsa da Venezia a Padova, era in lire austriache di 4,5 per il coupé di prima classe, 3,5 in seconda classe e due lire in terza classe. Si tenga presente che due lire austriache erano però la paga giornaliera di un operaio altamente qualificato e che la vettura di terza classe era scoperta.
Le finanze della società erano comunque esauste e Vienna si premurò di consigliare la cessione della società, senza nascondere la sprezzante convinzione ideologica che gli italiani fossero incapaci di raggiungere ogni pur minimo risultato. Tuttavia, in un ultimo sussulto di orgoglio, gli azionisti riuniti a Venezia nel 1843 decisero di rinnovare gli sforzi proprio per non concedere l’assorbimento di tante loro fatiche al governo austriaco.

COSI' GLI ITALIANI CEDETTERO LE ARMI
lineami-ve5.jpg
Ma il destino dell’opera era segnato, prima di tutto
dai continui dissapori tra le due direzioni e, più che altro, da alcune scelte sbagliate, come quella milanese di affidare i lavori della sua tratta a piccoli "abboccatori" che rendevano complicatissima la contabilità e la sorveglianza, invece di ricorrere alle grandi imprese di costruzione specializzatesi a livello europeo. Le spese superavano ormai di un buon 25% i preventivi; i numerosissimi operai dei cantieri lombardi erano poi esasperati dai taglieggiamenti messi in atto dai piccoli imprenditori locali che li truffavano sui salari promessi, sino a privarli a volte dei ricoveri notturni pattuiti, così che iniziarono rumorosamente alcuni moti di protesta.
Vienna, preoccupata dai continui e allarmanti rapporti di polizia e memore di analoghi moti dei cantieri ferroviari alle porte di Praga che da poco aveva dovuto reprimere nel sangue, incominciò a fare pressioni per il definitivo passaggio delle responsabilità allo Stato. D’altro canto molti azionisti italiani avevano già alienato i propri titoli che si trovavano ormai per la quota maggiore in mani austro-tedesche, senza contare che anche un semplice confronto con i costi della linea Vienna-Trieste (peraltro interamente condotta da maestranze italiane) era umiliante per la situazione finanziaria della Ferdinandea.
Fu così che nel 1845 la commissione italiana capitolò e insediò una delegazione per lo studio della procedura di cessione della società al governo austriaco. Si trattò in effetti di uno smacco per la direzione della Ferdinandea e – molto più da lontano – anche di una vera e propria umiliazione nazionale. Per poter comunque giungere alla agognata conclusione dei lavori il governo austriaco procedette a creare un nuovo organo statale, l’Imperial Regio Ispettorato della strada ferrata Ferdinandea Lombardo-Veneta.

SOLO 26 ORE TRA MILANO E VENEZIA
lineami-ve6.jpgSe comunque le casse erano vuote – si riscontrava
anzi un leggero disavanzo – l’opera però era a buon punto; il ponte sulla laguna era ultimato, dall’altro capo i binari stavano per entrare a Vicenza e la Milano-Treviglio era quasi pronta al primo fischio del capostazione, tanto che l’11 gennaio del 1846 l’Arciduca Federico poteva inaugurare la tratta Venezia-Vicenza, mentre solo un mese più tardi il Vicere Ranieri inaugurava la tratta Milano-Treviglio.
Non era proprio quello che aveva sperato il Cattaneo, tuttavia i signori potevano ora coprire l’intero tragitto tra Milano e Venezia in 26 ore, con un servizio che eccezionalmente prevedeva di caricare a Milano le loro carrozze con tutti gli occupanti sul carro ferroviario (non era nemmeno richiesto il fastidio di scendere dalle proprie vetture), scaricarle a Treviglio dove al traino dei loro cavalli imboccavano la strada postale veneta fino a Vicenza e qui venivano nuovamente caricate sul treno che le portava a destinazione a Venezia.

IL PRIMO TRENO A BRESCIA NEL NOVEMBRE 1853
stazionebs2.jpg
Ma in tutta Europa stava scemando la voglia di ferrovie,
o meglio si era ormai a ridosso di quel 1848 che impegnò i governi con ingenti spese militari e segnò una lunga pausa d’arresto per ogni altra attività. Sommosse, guerre, rivendicazioni e ribellioni costrinsero alla sospensione dei lavori che ripresero stancamente con nuovi assetti psicologici se non politici solo nel luglio del 1849, quando il treno arrivò a Verona.
Molto più drammatica si presentava invece la situazione veneziana. Agli occhi di Vienna la città lagunare non avrebbe più potuto redimersi dall’ignominioso tentativo che aveva compiuto di annettersi al Piemonte, pesanti erano le ferite ancora aperte soprattutto sul ponte lagunare, quel gioiello di ingegneria sul quale si erano rabbiosamente scaricate le artiglierie austriache, danneggiandolo così gravemente che fu possibile riattivarlo solamente nel 1850.
Il completamento del progetto veleggiava però ancora nell’ambito dei sogni; la prima corsa tra Verona e Brescia venne effettuata – con grande scorno della sezione lombarda che avrebbe voluto raggiungere Brescia prima dei veneziani – solo il 19 novembre del 1853 e solo il 24 aprile dell’anno successivo i binari approdarono alla stazione di Coccaglio.
Va detto però che su quest’ultima tratta si trovavano le tre opere d’ingegneria più impegnative di tutta la linea, ad esclusione ovviamente del ponte sulla laguna. Il ponte sull’Adige (dedicato a Francesco Giuseppe), l’imponente viadotto di Desenzano (del quale il Cocchetti riferisce che costò 2 milioni di lire) e la stazione di Brescia, opera prestigiosissima dell’ingegner Foà. A onor del vero a queste tre opere di un notevole rilievo ingegneristico andrebbe aggiunto anche il ponte sull’Oglio a Palazzolo.

L'ULTIMO TRATTO FU APERTO NEL 1857
lineami-ve7.jpg
Se tuttavia con questo completamento i due centri
principali dell’Italia austriaca erano ora effettivamente più vicini, i passeggeri restavano abbastanza delusi perché costretti ancora al fastidioso trasbordo sulla diligenza per coprire la tratta tra Coccaglio a Treviglio. Fu ancora l’Imperatore che con una nuova decisione sovrana sollevò i viaggiatori lombardi dall’incomodo ordinando la conclusione dell’opera, ma in una tardiva – quanto inspiegabile – resipiscenza volle offrire ai bergamaschi quella soddisfazione da loro a lungo sospirata.
La nuova linea fu cioè costretta a risalire da Coccaglio fino a Bergamo per poi ridiscendere a Treviglio e l’ultima tratta entrò in servizio nel 1857, più di vent’anni dopo lo studio del progetto. È possibile che in questo tempo la tecnologia avesse fatto passi da gigante, tanto da offuscare le preoccupazioni originarie dell’ingegner Milani, ma è assai più probabile che la sovrana decisione fosse un ultimo tentativo di Vienna per accontentare tutti, bresciani, bergamaschi e milanesi ed esorcizzare così quella guerra che si scatenò comunque solo due anni dopo l’apertura della nuova tratta e che suonò come monito per l’Austria che si ostinava a credere l’Italia una sola entità geografica, priva insomma di vere ambizioni nazionali
I bergamaschi probabilmente furono soddisfatti, molto meno i viaggiatori che onestamente si vedevano tragicamente allungata la tratta Brescia-Milano, tanto che con un buon cavallo da Coccaglio si poteva arrivare a Treviglio in tempi decisamente inferiori a quelli che impiegava il treno, costretto ad allungare il percorso fino a Bergamo.
Questo tuttavia non può ancora considerarsi il vero epilogo della vicenda, che arriverà decisamente più tardi, nel 1879, quando il governo italiano, ormai definitivamente insediato a Roma, decise la realizzazione del by-pass tra Coccaglio e Treviglio, fortemente voluto e promosso da Giuseppe Zanardelli che – nei panni di ministro dei Lavori Pubblici tra il 1876 e il 1877 – aveva perorato la causa originaria dell’ingegner Milani e del Cattaneo.

E IL TRENO DERAGLIO' NEL VIAGGIO INAUGURALE
stazioneportatosamilano.jpg
Il Fato però non ha mancato di giocare un tiro
birbone alle aspettative dei lombardi e dell’Austria. La sera del 12 ottobre 1857 le autorità milanesi con tanto di banda militare, nella stazione di Porta Tosa a Milano parata a festa, erano orgogliosamente in attesa del treno che, partito la mattina da Venezia, doveva effettuare il viaggio inaugurale sull’intera tratta fino alla capitale lombarda, ma – ahimè – il treno senza alcuna spiegazione tardò e tardò parecchio. Solo molto, molto più tardi si scoprì che nell’imboccare il nuovo tratto tra Coccaglio e Bergamo era deragliato, per fortuna senza gravi conseguenze. Giunse quindi a Milano verso le tre e mezza del mattino successivo, suonando la campanella per svegliare le assonnate autorità, ma ormai – tragica commedia italiana, della quale più volte siamo testimoni anche oggigiorno – erano passati più di quarant’anni dall’inizio dell’opera.

Più informazioni su

Commenti

L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di QuiBrescia, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.