Nei monasteri bresciani le tracce di una storia millenaria

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02.jpgLa storia del monachesimo bresciano incominciò nel 716 quando il papa Gregorio II incaricò un certo Petronace da Brescia di radunare gli anacoreti sparsi attorno alle rovine di Montecassino. Non è difficile scoprire nel centro il segno di questo passato e il fascino di ambienti che, nei secoli e in modi diversi, sono stati il cuore pulsante della città: i monasteri.

di Sergio Re

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Non è difficile scoprire lungo le vie del centro cittadino il segno degli eventi che ci hanno preceduto; meno facile è invece entrare nelle pieghe di questo passato e riscoprire il fascino nascosto di ambienti che nei secoli, e in modi diversi, sono stati il cuore pulsante della città. Nei molti monasteri bresciani, per esempio, il chiostro o quel che resta dei numerosi chiostri cittadini – orgoglio, miraggio, rifugio e talvolta odiato simbolo per i comuni mortali – conserva ancora oggi l’ascendente spirituale che promana dall’afflato mistico e dalla sua antichità.

06.jpgNei primi tempi, subito dopo lo scontro tra la diffusione cristiana e il paganesimo, esattamente quando il cristianesimo incominciò a muovere i primi passi verso l’immensa e incolta pianura e verso la montagna, i monasteri furono l’epicentro di una rete estesa di attività economiche, cultuali, logistiche, diplomatiche e commerciali. E proprio il chiostro – palcoscenico sul quale si affacciavano i principali ambienti degli istituti religiosi, chiesa, refettorio e parlatorio – era il crocevia attraverso il quale transitavano tutte le sue attività. Questa centralità topografica non tardò a divenire nel tempo centralità tipologica, tanto che il chiostro diventò rapidamente sinonimo del monastero stesso e "ritirarsi nel chiostro" divenne voce per sottintendere la monacazione.
11.jpgLe origini di questo spazio, funzionale al disbrigo dei movimenti interni, si perdono nel silenzio del tempo, o forse più semplicemente si rifanno al cortile del castello nei suoi molteplici usi – da piazza d’armi a mercato – oppure anche all’aia dei grandi cascinali sulla quale si affacciavano le dimore dei bifolchi, i granai, le stalle, insomma uno snodo che consentisse con semplicità lo svolgimento delle principali attività alle quali era deputato l’istituto.
Ma, qualunque ne sia la provenienza, è l’originalità della struttura architettonica così come concepita nel chiostro che ammalia, per la sua semplicità coniugata a una inesauribile molteplicità di esecuzioni.

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Se infatti topograficamente si tratta sempre di una corte a forma quadrata o rettangolare, fiancheggiata da porticati a pian terreno e da loggiati ai piani superiori, è la fantasia dei giochi euritmici, la snella fuga degli archi a tutto sesto o l’aspetto severo e accigliato degli archi a sesto acuto, con l’intarsio delle ombre e delle luci e i riflessi che i colonnati gettano negli anditi e nei corridoi, che ci riportano l’alito spirituale dell’epoca in cui sono stati creati.
08.jpgNel silenzio di questi monasteri il trambusto dei famigli che proveniva dalle cucine, dalla stalla e dall’orto, cedeva il passo nel chiostro al coro salmodiante dei monaci quando in processione confluivano verso l’ufficio liturgico e l’eco del canto sommesso s’intercalava al tintinnio della campanella che annunciava al portone l’arrivo di questuanti, affittuari, commercianti, contadini o di altri monaci in veste speciale di ispettori, amministratori, consiglieri, predicatori o confessori.
Cogliere quindi ad uno ad uno la bellezza e l’armonia di questi ambienti, significa immergersi nella loro storia, sepolta come un fantasma tra i disegni e le screziature del cotto che ne ombreggia i profili o negli sfondi chiaroscurali intarsiati di bianca pietra bresciana; significa cioè ripercorrere le tappe fondamentali di una storia tortuosa, soffermandosi ora sul profilo ritmico delle volte semicircolari o acute, ora sulle fughe sfumate delle colonne, dimenticando magari l’inciampo delle aggiunte o delle mutilazioni, guidati dallo stesso amore e dalla stessa passione che spinse l’architetto a depositare in queste pietre il messaggio del tempo.

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La preistoria di tutte le esperienze monastiche coincide anche a Brescia con la proliferazione incontrollata di piccole case disperse sui monti o nelle incolte pianure dove, singolarmente o in gruppi molto ristretti, alcuni laici facevano pratica di eremitaggio, il che non era necessariamente ricerca di un risvolto spirituale per la propria vita, anzi, il ventilabro della Chiesa avrà a questo proposito il suo bel da fare per discernere nel caos le vere vocazioni.
02.jpgIn ogni caso la storia vera del monachesimo bresciano incomincia nel 716 quando il papa Gregorio II incaricò un certo Petronace da Brescia, monaco probabilmente in una delle case di preghiera alle porte della città, di radunare gli anacoreti sparsi attorno alle rovine di Montecassino per riprendervi le fila del lavoro di San Benedetto, cancellato dalla furia delle invasioni barbariche. Petronace naturalmente prese l’abbrivo per la ricostruzione dalla sapiente Regula benedettina, fondata sul binomio di preghiera e lavoro (ora et labora). L’avvenimento rivestì un ruolo determinante nella storia dello sviluppo monastico bresciano e costituì il ponte di collegamento tra la ripresa delle tradizioni monastiche nazionali e quelle locali.
Tra Montecassino e Brescia si venne insomma ad instaurare una relazione di affinità che culminò ancora all’epoca di Petronace con il prezioso scambio di alcune reliquie dei rispettivi patroni, mentre in uno slancio augurale verso la sua terra, Petronace stesso inviò Ermoaldo con dodici confratelli per avviare a Leno la prima fondazione benedettina longobarda nell’anno 758.
In città per la verità qualcosa esisteva già prima. L’esperienza monastica più antica fu infatti quella femminile del monastero dei Santi Cosma e Damiano, della cui struttura non resta purtroppo alcuna traccia perché, fondato nel VI secolo dal vescovo Onorio, venne demolito nel XIV per costruire sulla sua area il Broletto. In questo cenobio benedettino trovavano ricovero le figlie del ceto medio cittadino che si votavano al servizio paraliturgico della chiesa di San Pietro de Dom (la cattedrale antica) che venne più tardi demolita per edificare sulla sua area l’attuale Duomo Nuovo.
03.jpgIl monastero femminile di San Salvatore invece (più tardi denominato di Santa Giulia), venne fondato nel 753 dal sovrano longobardo Desiderio per accogliere le fanciulle di stirpe nobiliare o regale, ma nelle mire del re avrebbe dovuto svolgere anche altre funzioni di natura politica, divenendo punto di riferimento di una vasta rete di dipendenze estesa in tutti i suoi territori italiani. Le ambizioni del sovrano longobardo si scontrarono però con quelle di Carlo Magno che aveva concepito la stessa idea, ma su scala incomparabilmente superiore, ed estese la stessa rete di monasteri benedettini in tutta Europa creando una interconnessione ideale che proiettò Brescia entro una vastissima comunità spirituale, politica e religiosa accanto ai più rinomati monasteri europei.
Nell’841 fu la volta del primo monastero benedettino maschile, quello di San Faustino fondato dal vescovo Ramperto, che raccolse i monaci di quelle piccole case di preghiera ancora esistenti nei pressi della chiesa di Santa Maria in Sylva (la futura basilica dei patroni), un nome che evoca suggestive bellezze naturali del tutto perdute nella zona dell’attuale piazza Cesare Battisti. Per avviare questa fondazione vennero chiamati Ildemaro e Leudegaro con altri monaci franchi il cui ricordo sopravvive nel nome rua di alcune vie del quartiere di San Faustino.

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Dopo l’anno mille il monachesimo benedettino subì una battuta di arresto e la fondazione nel 1008 del monastero maschile di Sant’Eufemia – situato molto lontano dalla città, sulla strada per Verona – fu l’estremo tentativo del vescovo Landolfo per recuperare alla disciplina alcune scandalose situazioni, ma le sue attese andarono deluse.
07.jpgIl secondo grande periodo della storia monastica bresciana sorgerà da una rivoluzione culturale che in città incominciò con la contestazione di Arnaldo il quale, faticosamente, preparò il terreno agli ordini mendicanti. Già nel 1221 Brescia salutò con entusiasmo una piccola comunità di frati minori di San Francesco e nel 1254 il Comune fondò a proprie spese il loro primo convento. Vennero in seguito i domenicani, gli eremitani, i carmelitani e molte altre famiglie a contendersi l’assistenza degli emarginati, dei bisognosi, degli ammalati, conquistando la fiducia e la simpatia di tutta la popolazione.
Segni del consenso con il quale la città accolse questi nuovi "frati" traspaiono dall’usanza dei lasciti, che sin dal XIV secolo sempre più spesso vengono intestati ai "quattuor conventibus paupertatis Brixiae", ma l’iniziativa civica che di gran lunga supera in quest’epoca ogni altra attività è quella ospedaliera.
12.jpgLa pratica, estesa sin dai primordi, vide i monasteri cittadini in gara per la fondazione di ospedali, meglio sarebbe dire ospizi, visto che all’inizio si trattava solamente di case per il ricovero dei pellegrini. Ma in questi secoli, proprio ad opera degli ordini mendicanti, ricevette grande impulso la fondazione ed il riutilizzo di queste case a favore dei poveri e degli ammalati, destinando a questo scopo la raccolta delle questue ed è dalla fusione di tutti questi piccoli ospizi che nel 1452 il Consiglio municipale dette vita ad uno dei primi e dei più grandi ospedali italiani, la cui eco si coglie ancora nella fama della "Crociera di San Luca".
11.jpgOmbre non lievi verranno gettate su questa esaltante storia cittadina dalla situazione di decadenza dei monasteri benedettini, dal cedimento di alcuni ordini, ma soprattutto dal dilagare di situazioni critiche che il braccio secolare sempre più spesso era chiamato a dirimere tra Cinque e Seicento in alcuni istituti femminili. Il male – lo ha chiaramente esemplificato il Manzoni nella storia della monaca di Monza – stava in una società che non ricusava l’uso del monastero per "seppellire" la prole non destinata al giro lucroso degli affari matrimoniali.
Significativo in questo contesto il componimento poetico di una fanciulla bresciana forzatamente reclusa nel monastero, recuperato e pubblicato quasi cento anni fa da monsignor Guerrini sulla rivista Brixia Sacra. A titolo di esempio bastano alcune strofe, tra le più vibranti e appassionate, per rendere con efficacia il dramma delle monacazioni forzate.
Per forza a rinserrarmi fui costretta
Fra chiostri oscuri in cui degg’io morire,
Morirò, sì; ma chiamerò vendetta,
De Profundis.

Piansi, chiamai pietà, ma senza frutto;
Fu vano il mio pregar, vano il mio pianto:
Oggi rimetto il vendicarmi, in tutto
Ad te Domine.

Non ha l’orrido Inferno al Monastero
Tormenti eguali a chi vi vive a forza.
Chi il provò, dica pur, stato si fiero
Quis sustinebit.

Non han tanti momenti i giorni e gli anni,
Fronde i boschi, erba i prati, arene i lidi,
Quante pene il mio spirito, e quanti affanni
Sustinuit.

Dillo pur tu, fier Genitore infido,
Quante smorfie mi festi, e quante offerte,
Da cui diffido, e molto più confido
In Domino.

Voi, Donzelle, che chiuse ancor non siete,
Fuggite anche il passar dai Monasteri,
Se esser pur voi tradite non volete
Ex omnibus.

Mossi sforzata a questi chiostri il piede
Quasi zoppo destrier spronato al corso;
D’una tal tirannia aspra mercede
Dona ei Domine.

E se pur io peccai, fammi scusata:
Genuflessa ai tuoi piè piango i miei falli;
Rasserena il mio pianto, e a me fia data
Lux perpetua.

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Il problema insomma era grave e la società civile non poteva lavarsene le mani assistendo inerte ad una proliferazione di monasteri che moltiplicavano i fermenti sociali. Ma come al solito la politica prese vie traverse ed arrivò alle soppressioni che culminarono nel primo decennio del secolo XIX con il repentino provvedimento napoleonico che incamerò al pubblico demanio tutti i beni monastici, sciogliendo tutti gli ordini ad eccezione dei pochi istituti ospedalieri.
La legge, ovviamente appoggiata dagli interessi locali che ne acquisirono i beni a prezzo di svendita, si abbatté come un uragano sulla Chiesa bresciana, sradicando in profondità il patrimonio culturale della città, numerosi archivi e preziose biblioteche vennero al tempo alienate e disperse, cedute disordinatamente ad istituti diversi, migrando a volte anche in altre città, da dove oggi saltuariamente riaffiorano preziosi documenti utilissimi per ricostruire questa straordinaria e complessa storia bresciana.
Gli immobili dei monasteri venduti o declassati ad uso diverso, divennero nel corso del secolo XIX caserme, ospedali, depositi o scuole e si avviarono nel tempo lungo la strada di quel logorante processo di deterioramento che solo negli ultimi decenni è stato arrestato. Interessi pubblici e privati hanno infatti ultimamente cercato di recuperare ad un riuso più consono e favorevole alla loro conservazione i fabbricati che non sono solo memoria di aneliti religiosi, ma il sinonimo di quella civiltà, cultura ed arte che hanno segnato la storia bresciana dai primordi.

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