Quando a Brescia c’erano i tram: nascita e sviluppo di una rete
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di Sergio Re
Già nel 1877 gli ingegneri bresciani Borra e Bernardelli avevano elaborato il primo progetto di guidovia a trazione animale che avrebbe dovuto collegare la città con tre direttrici fondamentali: Iseo, Gardone Valtrompia e Valsabbia/Salò. Il preventivo dell’opera finita veniva stimato in oltre 2 milioni di lire (quasi 8 milioni di euro attuali) con probabili aumenti per gli imprevisti che sicuramente si sarebbero incontrati.
di Sergio Re
Una lotta fra tramvia e ferrovia per gli interessi economici (e politici)
Nell’ultimo quarto del secolo XIX la neonata nazione italiana, per celebrare l’improvvisa e insperata unità e per risollevare lo stato deficitario di industrie e commerci, aveva bisogno di tracciare direttrici di rapido collegamento tra i poli commerciali più dinamici e se la scelta – visto il rapido declino dei collegamenti su strada – doveva inderogabilmente cadere sulla rotaia. Agli amministratori pubblici bresciani (e non solo) di fine Ottocento si poneva però ancora un interrogativo: ferrovia o tram? La risposta in sé era eminentemente economica (la ferrovia richiedeva investimenti cospicui, mentre l’armamento leggero del tram riduceva drasticamente le spese), ma non passò molto tempo che se ne scoprirono anche le profonde finalità di natura politica.
Le ferrovie infatti divennero da subito il cavallo di battaglia del partito progressista, legato all’ambiente imprenditoriale e quindi alla nascente industria pesante, che auspicava grandi collegamenti con raccordi nei confronti della dorsale ferroviaria padana (la ferdinandea che collegava Venezia con Milano passando da Brescia e che era già in servizio dal 1852), mentre la tramvia (che al tempo veniva spesso chiamata guidovia) era prediletta dalla maggior parte del partito cattolico e conservatore, i cui interessi si legavano alle campagne, allo sviluppo agricolo, al commercio minuto e quindi ai collegamenti su scala provinciale. Apparentemente la soluzione si sarebbe potuta trovare solo nell’impostazione di un modello di sviluppo territoriale idoneo a rappresentare il futuro economico della provincia bresciana.
Nella realtà il vero, insormontabile problema fu proprio e solo quello economico. Già nel 1877 gli ingegneri bresciani Borra e Bernardelli avevano elaborato il primo progetto di guidovia a trazione animale che avrebbe dovuto collegare la città con tre direttrici fondamentali: Iseo, Gardone Valtrompia e Valsabbia/Salò. Il preventivo dell’opera finita veniva stimato in oltre 2 milioni di lire (quasi 8 milioni di euro attuali) con probabili aumenti per gli imprevisti che sicuramente si sarebbero incontrati. Vista l’entità dell’esborso e visto che nessun singolo imprenditore locale o pool di investitori aveva la voglia di imbarcarsi in una avventura dal futuro nebuloso, immediatamente si abbassarono i toni dello scontro e tutti convennero di incaricare il Borra per un progetto esecutivo della sola tratta Brescia-Salò che sembrava la più semplice da realizzare, ma – ahimè – anche questa risultò, per le finanze bresciane, eccessivamente dispendiosa (oltre 1 milione di lire) e non se ne fece nulla.
L’indisponibilità dei capitali locali – che si dichiararono più volte avversi anche ad altri e pur interessanti progetti ferroviari e tranviari – costrinse la Deputazione Provinciale a rivolgersi all’iniziativa straniera.
Su questo fronte, si fece immediatamente avanti una società londinese che ricevette l’incarico per realizzare guidovie a trazione meccanica verso le tre direttrici già individuate dal Borra, alla quale si aggiunse ora anche Orzinuovi, nell’intento di avvicinare alla montagna la produttività agricola della bassa bresciana. A causa di difficoltà interne la società londinese fu però costretta a cedere la sua concessione ad una società belga la quale si mise immediatamente al lavoro, costituì una nuova concessionaria, la "Tramways de la Province de Brescia", e iniziò rapidamente i lavori. Entro il 1881 la nuova società inaugurò i collegamenti con Orzinuovi e con Vobarno ed entro il 1882 quello con Gardone Valtrompia.
Nel frattempo altri investitori si erano fatti avanti scoprendo interessanti potenzialità economiche nel territorio bresciano. In quello stesso 1882 un’altra società belga, la "Societè d’Entreprise Generale de Travaux", ottenne la concessione per aprire il collegamento con Castiglione delle Stiviere che in futuro venne prolungato fino a Mantova e Ostiglia.
Nel giro di un quinquennio insomma, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo, il territorio bresciano si trovò percorso da materiale rotabile tranviario che (a meno della Val Camonica ancora impedita dal collo di bottiglia del Lago d’Iseo) collegava la campagna con la montagna e con il Garda. Questa visione ideale si scontrò però con lo scarso coordinamento dei progetti che erano stati tutti gestiti in modo indipendentente.
La tramvia di Gardone Valtrompia si fermava a Porta Trento, quella di Orzinuovi nei pressi della stazione ferroviaria e le due di Ostiglia e Vobarno arrivavano a Porta Venezia, senza interconnettersi reciprocamente. La città insomma – che non era mai stata interessata a questi progetti – si trovò ad essere, più che uno snodo di coordinamento, un ostacolo allo sviluppo futuro dei commerci. A questo punto le due società concessionarie incominciarono a fare pressioni sulla municipalità cittadina per porre i binari sulla via di circonvallazione (pressappoco l’attuale via XX Settembre) interconnettendo i collegamenti verso sud con quelli verso est, ma la città aveva ormai compreso che, per trarre qualche vantaggio, la partita andava giocata in altro modo.
La battaglia municipale, il cavallo di Troia della città
La richiesta avanzata dalle due compagnie che avevano l’appalto dei trasporti provinciali di stendere a sud – fuori dal baluardo delle mura venete ancora esistenti lungo il perimetro della città – un reticolo di binari per l’interconnessione delle reti tranviarie appena realizzate, offrì alla municipalità cittadina l’occasione per riprendersi quella centralità nell’ambito provinciale che in antico regime non le era mai venuta meno. Il responso del municipio fu immediatamente favorevole, ma subordinato alla condizione di far entrare il tram nel centro della città. Anzi, secondo un primo progetto piuttosto miope a onor del vero, tutta la rete avrebbe dovuto far capo ad uno Chalet da costruire in Piazza Duomo dove, oltre alla funzione di biglietteria, si sarebbe dovuto accentrare il coordinamento dell’intero traffico merci e passeggeri.
La questione non era di poco conto. Le vie cittadine erano anguste, fatte su misura per un traffico limitato a piccole carrozze trainate da cavalli, ma le due concessionarie non avevano intenzione di scontentare la municipalità, dalla quale si aspettavano la concessione per la posa della nuova rete di raccordo. Entrambe si limitarono quindi ad avanzare timidamente remore tecniche, suggerendo di spostare il centro di coordinamento presso la stazione ferroviaria, da dove poteva partire un omnibus trainato da cavalli, per servire il centro cittadino.
Le autorità però s’impuntarono e vennero allora redatti alcuni progetti dettagliati, seguendo diverse vie di accesso e secondo diverse soluzioni tecniche. Ma il programma restava arduo sia che si trattasse di tram a cavalli, sia che si puntasse sulla più avveniristica, ma per molti aspetti disagevole trazione a vapore, contro la quale deponevano le anguste vie cittadine, i ridotti raggi di curvatura dei binari da posare nelle svolte e soprattutto l’eccessiva velocità di servizio delle vetture.
Su queste basi i consigli comunali che si susseguirono tumultuosamente divennero infuocati, tra progressisti e conservatori si venne alle ingiurie (un vezzo democratico – come si vede – praticato da lungo tempo), furono scambiate accuse di ignoranza, di incompetenza e di oscurantismo. Insomma nessuno voleva cedere e si arrivò a proporre l’improponibile. I fautori della trazione meccanica, abbarbicati al loro obiettivo, proposero addirittura di far avanzare le vetture a passo d’uomo e di farle precedere da un guardiano incaricato di richiamare l’attenzione della popolazione. La soluzione evidentemente non avrebbe fatto onore agli ingenti investimenti del tram a vapore, mortificato in sede operativa da una velocità che si poteva ottenere con spese molto minori.
Dopo alcuni mesi di litigi, il consiglio comunale arrivò ad un accomodamento e – ripreso l’originale progetto della ditta concessionaria – votò (16 voti contro 6) la realizzazione di una guidovia a cavalli per il collegamento della stazione ferroviaria con piazza Duomo. Il servizio incominciò regolarmente il 2 giugno del 1882, con sedici corse giornaliere distribuite tra le 6,30 del mattino e le 19,30. Partendo dalla stazione ferroviaria la vettura trainata da un solo cavallo attraversava (i nomi delle vie sono ovviamente quelli odierni) piazzale Roma, corso Martiri della Libertà, corso Palestro, corso Zanardelli, via Mazzini e via Cardinal Querini, per giungere al capolinea in piazza Duomo e quindi ritornare alla stazione lungo lo stesso percorso.
I punti dolenti del servizio erano però due: il costo del biglietto (15 centesimi in prima classe e 10 in seconda), che praticamente escludeva dall’utilizzo le classi popolari, e la ridottissima velocità (20 minuti per l’andata e 20 per il ritorno). Il servizio risultò insomma deludente, gli entusiasmi si smorzarono rapidamente tanto che le entrate non riuscirono nemmeno a coprire le spese di gestione. La società concessionaria chiese allora di sopprimere il tratto tra il Teatro Grande e piazza Duomo, dove la salita del Dosso faceva veramente sudare il cavallo e la stretta curva di accesso alla piazza creava continui problemi al servizio. Ma ne approfittò contemporaneamente per caldeggiare il suo progetto originale, riproponendo di prolungare la linea dal Teatro Grande fino a Porta Venezia, realizzando così finalmente la saldatura con la sua linea Vobarno/Salò. Contemporaneamente suggerì l’opportunità di realizzare un nuovo collegamento tra Canton Stoppini e l’attuale piazza Garibaldi.
Il consiglio comunale finalmente si convinse della ragionevolezza di questo progetto e già il 4 novembre dello stesso anno la nuova linea entrava in servizio mentre, nel gennaio del 1883, venne realizzato il collegamento tra piazza Garibaldi e Borgo San Giovanni.
A questo punto la città si poteva dir servita egregiamente da due linee; la prima collegava la stazione ferroviaria con Porta Venezia e la seconda raccordava Porta Venezia con Borgo San Giovanni fuori dalla Porta Milanese. Unico nodo irrisolto, per difficoltà oggettive a districare il servizio nel dedalo di viuzze a nord della città, era quello di Porta Trento – dove si trovava il capolinea della tratta verso Gardone Valtrompia – che restava isolato da tutto il resto della rete cittadina.
Come si chiamarono le due linee? Con numeri o lettere, 1 e 2 o A e B? Né l’uno, né l’altro, perché l’alto tasso di analfabetismo aveva consigliato (come per le metropolitane moderne) di distinguere le due tratte con i colori: un disco rosso per le vetture che coprivano la tratta Stazione – Porta Venezia e un disco verde per quelle che raccordavano Porta Venezia con Borgo San Giovanni.
L'arrivo dell'elettricità: con la Grande Guerra il tram raggiunse Idro
Tra lo sferragliare delle vetture che intercalavano il cicaleccio delle massaie e l’eco degli artigiani nelle vie cittadine, le rotaie della prima linea tramviaria erano uscite dalle mura della città puntando decisamente verso est. I lavori – come abbiamo visto – erano andati avanti molto celermente, e il primo tratto aveva raggiunto Rezzato il 21 giugno 1881. La tratta successiva che da Rezzato aveva toccato i Tormini, affacciandosi sul Lago di Garda, era stata posata in un battibaleno tanto che era entrata in servizio l'8 dicembre dello stesso anno. Viene da chiedersi quale fosse questo pressante interesse per il territorio valsabbino. Per capirlo dobbiamo fare mentalmente un passo indietro.
L’idea del servizio tramviario si è venuta sostanzialmente modificando nel corso del tempo e, se oggi noi lo immaginiamo riservato al solo trasporto di persone per lo più all’interno di aree metropolitane, alle origini si trattava invece di un servizio ferroviario vero e proprio, anche se in chiave minore. I risparmi degli investimenti erano sì conseguenza di un armamento leggero, ma soprattutto del fatto che questo armamento veniva posato su strade già esistenti, delle quali si sfruttava quindi la massicciata. Si trattava quindi di una ferrovia a tutti gli effetti, adibita anche al trasporto delle merci e, in questo senso, la tratta pianeggiante tra Brescia e i Tormini, già vantaggiosa per una topografia che richiedeva minori opere di ingegneria per la realizzazione, prometteva lucrosi profitti attraversando poli di notevole fervore industriale: Rezzato, con le sue cave, e Villanuova, che di recente aveva iniziato un promettente sviluppo nell’ambito del settore tessile. I due centri industriali con questo servizio si sarebbero notevolmente avvicinati alla stazione ferroviaria di Brescia ricavandone benefici non indifferenti. Tutto questo ci lascia anzi presumere che gli amministratori pubblici possono anche aver ricevuto pressioni e sollecitazioni da parte dei capitali che vedevano nello sviluppo del tram il possibile incremento dei redditizi traffici commerciali.
Difatti le tratte successive, che dovevano collegare i Tormini con Barghe e quindi con Nozza e Vestone procedettero con minor sollecitudine. È pur vero che tra montagna e pianura si sarebbe potenzialmente potuto aprire un remunerativo scambio di legname e di granaglie, ma è altrettanto vero che in testa alla Valle Sabbia all’epoca si stendevano i confini nazionali che dividevano l’Italia dall’Austria. E l’Austria, avendo pesantemente pagato la nostra recente unificazione, probabilmente era scarsamente propensa ad ogni forma di dialogo.
Comunque sia, entro il 1885 i binari raggiunsero anche la ferriera Migliavacca di Vobarno ed entro il 1886 fu completato l’ultimo tronco fino a Vestone. Il ponte tra la città e Vestone in poco meno di un decennio era quindi compiuto tra entusiasmi, brindisi e bandierine colorate, nell’italica specialità delle inaugurazioni. Ma forse non tutti erano proprio così contenti.
Molti erano coloro che non potevano permettersi l’ebbrezza della "velocità" (le virgolette ci ricordano che l’intero tragitto tra Brescia e Barghe veniva coperto in più di tre ore) sui vagoni della nuova tramvia, eppure tutti erano costretti a subirne i principali incomodi: il rumore assordante dei convogli e il potenziale pericolo di quelle ruote di acciaio che macinavano chilometri, ma non sapevano – come i cavalli – scavalcare gli intralci. Molti insomma furono gli incidenti dei primi tempi nei quali persero la vita uomini e animali, mentre si preparava, come in ogni rivoluzione, l’arrivo di ore infauste. Per esempio per i numerosi vetturini che fino allora avevano assicurato i collegamenti tra il centro città e la periferia e che da quel momento rimasero pressoché senza lavoro.
L’ultimo capitolo di questa storia lo scrisse la Società Elettrica Bresciana. Si può dire che il capitale locale abbia compreso alla svelta che l’investitore straniero aveva fatto a Brescia un buon affare, e lo aveva capito dal crescente volume di traffico che nel 1902 impose alla direzione delle tranvie di avanzare una richiesta alle autorità provinciali per aumentare il numero delle carrozze di ogni convoglio dalle tradizionali sei a otto.
Gli investitori bresciani incominciarono quindi ad agitarsi e, per non perdere l’ultimo treno, studiarono bene la questione. Il busillis era la scarsa flessibilità del servizio imposta dalle notevoli difficoltà di riavviare il meccanismo ad ogni fermata e la soluzione la fornì il rivoluzionario motore elettrico. Quell’industria era saldamente nelle mani del capitale bresciano e, alla scadenza dei vari mandati, la Società Elettrica Bresciana (Seb) si fece avanti proponendo alle autorità provinciali l’acquisizione dei vari impianti promettendone l’elettrificazione. Fu questa la fase finale e tutto sommato più qualificante della modernizzazione dei trasporti sul territorio bresciano, e ancora la Val Sabbia con le mete di Vobarno e di Vestone fu in prima linea, poiché l’intera tratta venne elettrificata entro il 1914.
Ma pochi anni separavano ormai l’Italia dal nuovo e drammatico conflitto. Presto ricominciarono a tuonare i cannoni e il confine, con le sue esigenze logistiche, era proprio lì, a due passi dal capolinea di Vestone. Fu sicuramente questa l’occasione che spinse le autorità a sollecitare la Seb per la posa dei binari nell’ultima tratta, prevista, ma mai realizzata. Così, sulla Vestone/Idro, completata entro il 1917, incominciarono a correre convogli pieni di divise grigio-verdi, mentre ragazzini dal volto imberbe, straniti e inebetiti, si affacciavano ai finestrini di questo tram, fischiettando – senza capirne il dramma – le note struggenti di una canzone che rievocava il fischio delle pallottole. Ta-pum!
Nota. Per maggiori dettagli si rinvia a: G.P. Belotti – M. Baldoli, Una corsa lunga cent’anni, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 1999 (da dove sono tratte le immagini a corredo di questo articolo) e A. Fappani, Enciclopedia Bresciana, (s.v. Tram), Vol. XIX, Editrice "La Voce del Popolo", Brescia 2004.
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