Covid, scoperti gli “autoanticorpi” dei casi più gravi

Asst Spedali Civili di Brescia e Università degli Studi di Brescia in uno studio sulle cause dell’estrema variabilità della malattia da SARS-CoV-2.

(red.) Scoperti gli “autoanticorpi” che determinano i casi più gravi di malattia da SARS-CoV-2.

A mettere a segno questa importante individuazione ASST Spedali Civili di Brescia e Università degli Studi di Brescia che hanno collaborato alla ricerca internazionale che ha permesso di individuare uno dei meccanismi fondamentali alla base dei casi più gravi di malattia da COVID-19: una scoperta dalle potenziali ricadute diagnostiche e terapeutiche.

Nel marzo 2020, durante i primi mesi della pandemia causata dal Coronavirus, quando si cercavano disperatamente delle “armi”, da usare contro un nemico che aveva colto alle spalle l’intera popolazione mondiale, è nato un gruppo di scienziati italiani e americani il cui unico obiettivo era quello di studiare le cause dell’estrema variabilità della malattia da SARS-CoV-2.

Questo gruppo fa capo a tre grandi istituti di ricerca, rinomati a livello mondiale nel panorama della ricerca e della salute pubblica, quali il National Institute of Health (NIH) di Washington, la Rockefeller University di New York e l’Università di Parigi e in cui l’Italia ha preso parte insieme ad altre 38 nazioni. Tra i gruppi italiani, l’ASST-Spedali Civili di Brescia e l’Università di Brescia sono stati tra i protagonisti insieme ad altri istituti tra cui Università di Milano-Bicocca, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano, ASST Ospedale San Gerardo di Monza e Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

Gli ultimi risultati di questo gruppo internazionale sono stati riassunti in due lavori scientifici pubblicati giovedì 19 agosto sulla rivista Science Immunology. La ricerca ha permesso di analizzare campioni di oltre 40 mila soggetti provenienti da tutti e 7 i continenti, portando ad identificare un particolare gruppo di anticorpi, definiti “autoanticorpi”, che determinano un decorso più severo di COVID-19. Questi autoanticorpi neutralizzano gli interferoni di tipo I, che sono tra le molecole più importanti della risposta immunitaria, compresa quella che viene indotta dall’infezione da SARS-CoV-2.

Nella popolazione generale, la prevalenza di autoanticorpi anti-interferoni di tipo I nel sangue raddoppia dopo i 65 anni e circa il 20% di tutti i casi fatali di Covid-19 sono associati alla presenza di questi autoanticorpi neutralizzanti.

Questa scoperta potrebbe avere delle immediate ripercussioni in ambito diagnostico e terapeutico. Il riconoscimento precoce di questi autoanticorpi soprattutto nella popolazione degli anziani e nei soggetti che presentano già mutazioni che alterano il normale funzionamento del sistema immunitario potrebbe permettere nel prossimo futuro l’identificazione dei pazienti più a rischio e aprire le porte a nuovi approcci terapeutici basati sull’utilizzo di anticorpi monoclonali.

In caso di infezione, sono i soggetti con autoanticorpi anti-interferoni di tipo I che dovrebbero essere prontamente ricoverati per assicurare una precoce gestione della clinica associata al COVID-19 e sono sempre i soggetti con autoanticorpi che dovrebbero avere la più alta priorità nella vaccinazione. Un’altra importante ripercussione si avrebbe nella donazione di sangue e plasma di soggetti guariti dal COVID-19, perché tutti gli emocomponenti in cui si rileva la presenza di autoanticorpi dovrebbero essere esclusi dalla donazione.

Il contributo di Brescia allo studio è consistito nell’identificazione e caratterizzazione dei pazienti COVID-19 e nella raccolta del materiale biologico residuo dei prelievi dei pazienti COVID-19.
Alla ricerca, svolta nell’ambito di un progetto finanziato da Regione Lombardia, ha contribuito personale dell’ASST Spedali Civili di Brescia (Luisa Imberti, Alessandra Sottini e Virginia Quaresima del Laboratorio CREA, Alessandra Tucci dell’Ematologia, Ruggero Capra del Centro Sclerosi Multipla, Gabriele Tomasoni della 2 Rianimazione e Camillo Rossi della Direzione Sanitaria) e dell’Università di Brescia (Francesco Castelli e Eugenia Quiros-Roldan della Clinica di Malattie Infettive e Tropicali e Francesco Scolari della Nefrologia).

Il gruppo è lo stesso che, anche tramite la collaborazione del Prof. L.D. Notarangelo, già Professore Ordinario di Pediatria della Università di Brescia e che ora lavora all’NIH, lo scorso anno ha pubblicato sulla rivista Science due lavori che sono stati ritenuti da Nature tra le 10 più importanti pubblicazioni del 2020 in ambito scientifico e che sta continuando a fornire materiale e informazioni per altre ricerche attualmente in corso.

 

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