“The Way back”, l’anelito di libertà secondo Weir

Dopo 9 anni il regista de "L'attimo fuggente" e "The Truman show" torna con un film che racconta la prigionia e la fuga da un gulag. Una prova che non convince del tutto.

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Il film scelto questa settimana da quiBrescia.it è “The Way back” di Peter Weir; Genere: drammatico, storico. Produzione: Usa 2010. Durata: 99 minuti;  voto: * e mezzo
di Daniel Gallizioli

Dopo l’ obbligata confessione  della moglie sottoposta a tortura dall’ esercito russo, il soldato polacco Janusz (Sturgess) viene deportato come prigioniero politico in un gulag siberiano, nell’ inverno del 1940. Nelle condizione disumane della prigionia, la conoscenza di un attore, Khabarov (Strong), e di un americano, Mr. Smith (Ed Harris), lo spingeranno ad elaborare un piano di fuga disperato insieme ad altri sei detenuti verso le valli desolate e gelide della Russia, fino all’ India, passando per la Mongolia e il Tibet, lungo la catena dell’ Himalaya.  Un viaggio lunghissimo e complicato che si scontrerà con la fame, la fatica, la sofferenza e la morte ma che si concluderà per il protagonista con un liberatorio  e insperato  ritorno a casa dopo tanti anni.
Dopo 9 anni d’ attesa, lo storico regista de “L’ attimo fuggente” e di “The Truman Show” torna sul grande schermo con un’ opera ambiziosa e complessa.
Ispirandosi al romanzo di Salvomir Rawicz, “The long walk” (1956), Peter Weir dedica il film, come viene immediatamente espresso nei titoli iniziali, a quegli uomini che affrontarono questo viaggio verso la libertà, fuggendo dalla deportazione forzata.
Poco importa se la storia sia realmente accaduta o meno (visto che l’autore del romanzo che sostenne di aver raccontato fatti realmente accaduti è stato smentito), ciò che resta è la speranza e il desiderio di migliaia di persone di fuggire da quell’ odiosa reclusione anche rischiando la vita, tentativi che presumibilmente accaddero realmente nel corso della storia. Partendo da ciò, da questo desiderio di evasione e di libertà dalla condizione in cui ci si ritrova (aspetto che spesso ha accompagnatolo stile del regista australiano), l’ autore e anche sceneggiatore della pellicola realizza un’ opera ampia ed ambiziosa, complessa ed articolata ma non senza sbavature.
Emergono durante il film tematiche proprie del regista come la volontà di  esplorare l’ ignoto, lo sconosciuto, sia in termini di viaggio o di cammino che nell’ intimità dei protagonisti, in uomini di nazionalità e culture diverse che si vedono uniti nella sopravvivenza; nell’ occhio acuto verso il paesaggio naturale e l’ambiente che non smette mai di essere il coprotagonista del film;  oppure nell’ attenzione all’ intimità, ai sentimenti profondi che cercano di essere raccontati in dialoghi ricercati ma troppo effimeri. Uno stile conosciuto quello che si traspone tra lo spettatore e lo schermo ma che non riesce mai ad arrivare al vertice  dell’ espressione, al puro sentimento e non coinvolge mai del tutto il pubblico, nemmeno nelle scene più aspre, più scioccanti. La buona performance della maggior parte degli attori, su cui troneggiano indiscutibilmente quella di Harris e di Farrell, allontana solo parzialmente lo sguardo da una sceneggiatura disordinata e per nulla armonica, che spesso si focalizza su particolari poco significativi, scavalcando a piè pari intere porzioni di viaggio (il superamento dell’ Himalaya per esempio è  del tutto omesso) e sfaldandosi in varie occasioni, senza suggerimenti cronologici o riferimenti temporali.
Alcune difficoltà del percorso vengono spesso escluse come se si temesse di riprendere troppo, esagerare, andare troppo a fondo, tanto che le uccisioni di animali vengono sempre tagliate come per una sorta di rinuncia perbenista al macabro. I dialoghi, che dovrebbero essere l’ àncora dell’ intreccio, sono prevedibili e a tratti pusillanimi, pavidi nel loro incedere. Apprezzabile si dimostra la scenografia di John Stoddart e la fotografia di Russell Boyd che aiutano l’ andamento  del film, senza però rivoluzionarlo.
I costumi e le attente cure degli ambienti sono pregevoli   e denotano un grande lavoro profilmico  ma a livello tecnico ed artistico Weir ha abituato ad un altro trend e soprattutto ad un altro impatto espressivo. Tuttavia  si dimostra buono il finale, drammatico nella sua positività e interessante la penultima scena, in cui i passi del protagonista ormai libero  si confondono tra le immagini di repertorio della medesima fuga dell’ Europa intera  dai regimi totalitari. Scarso successo di botteghino ma discreto successo di critica, accompagnato da una buona distribuzione nazionale.  Aspetto interessante  per una  pellicola di un buonissimo regista che non si può però avvalorare fra i suoi lavori meglio riusciti.

 

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