Lettere al direttore

Statua del Bigio, rimettiamola al suo posto

“Non è facendo tabula rasa del passato che possiamo agire efficacemente, ma scolpendo i nostri propositi sul suo marmo”. Questa frase è di Nicolàs Gomez Davila, pensatore colombiano reazionario di cui Garcia Marquez però diceva: “Se non fossi comunista l’avrei pensata in tutto e per tutto come lui”.
Ed è il punto di partenza per un discorso sul Bigio. O forse ne è già la sintesi e ci dice perché, oltre le ideologie, dovremmo maturare la scelta di rimetterlo al suo posto prima che siano morti tutti quelli che se lo ricordano quand’era in piedi. Sono nato più di vent’anni dopo la fine del ventennio fascista. Ho quasi cinquant’anni.
Direi che di tempo ne è passato abbastanza, e che di soldi ne abbiamo spesi anche troppi per doverne sprecare ancora con progetti alternativi. Il motivo per cui questa nostra città dopo tanti anni non è ancora in grado di guardare con occhi normali al problema di una statua da ricollocare in un contesto architettonico che la “chiama”, è forse che il nostro paese non ha ancora elaborato con la necessaria profondità il “lutto” dell’esser stata fascista, e ha trasformato la lotta partigiana in un riscatto morale così grandioso da cancellare quel passato di cui vergognarsi e da rimuovere, ma che cancellare non possiamo. Dobbiamo invece, io credo, imparare ad accettare quel nostro “male” e guardarlo negli occhi guardando una statua che lo simboleggia.
Il perché di questo ritardo della coscienza autocritica collettiva è presto detto: i Giacomo Matteotti che parlavano apertamente a Montecitorio nel 1924, gli Andrea Trebeschi che vendevano sottobanco libri antifascisti proprio in piazza Vittoria, e che hanno pagato con la vita questa loro coraggiosa libertà, erano merce assai rara in quegli anni. Perché la maggioranza dei nostri genitori, nonni, o bisnonni, a seconda della nostra età, avevano la tessera, facevano il saluto, andavano alle adunate. E la lotta di liberazione, senza bisogno di citare gli orrori di cui ha scritto Pansa, non può cancellare il fatto che i nostri partigiani, compresi quelli dell’ultima ora, ci hanno liberato insieme agli americani da un invasore del quale l’Italia era stato fedele alleato per anni, senza che “le masse” fossero scese in piazza per opporvisi.
La festa della liberazione è allora, inevitabilmente, anche il memoriale dell’enormità di un asservimento volontario ai nazionalsocialisti, inclusa l’infamia delle leggi razziali, ed il memoriale della pazzia di aver lasciato andare al massacro i nostri giovani in una guerra senza senso, anche solo militarmente, e tuttavia accolta da quella folla urlante di folle giubilo in piazza Venezia. Invece ogni anno il 25 aprile finisce per essere per molti l’occasione per dividere i buoni dai cattivi, il bene dal male e a pronunciare una liberatoria sentenza di autoassoluzione, che ci colloca ovviamente tutti dalla parte dei giusti. “Il mio errore mi è sempre dinanzi”, disse il re Davide dopo aver commesso il suo crimine, e lo disse sebbene fosse l’unto del Signore, sicché mi pare possiamo farlo anche noi. Anzi, quella regale ma umile invocazione della pietà divina è forse il miglior titolo da dare al Bigio.
In questa cronicizzata urgenza di maturazione è chiaro che occorrerebbe un sindaco sollecitatore di riflessioni e pacificatore. Chi meglio di un sindaco del centro sinistra potrebbe farlo? E invece abbiamo un sindaco che parla la lingua del capo di partito e che paga volentieri il prezzo di una campagna elettorale viscerale, che qualcuno tra i suoi legge persino con gli occhiali deformanti di un referendum anti Bigio, sminuendo però in tal modo il valore stesso del suo capo e del suo programma. Così facendo il “primo cittadino” vien meno ai suoi doveri, e sposta ancor più in là nel tempo il giorno della maturazione, commettendo il medesimo errore di chi, prima di lui, dall’altra parte ha scioccamente impugnato il Bigio come una clava ideologica.
In piazza Vittoria possono e devono convivere le pietre d’inciampo che ricordano il sacrificio innocente degli ebrei bresciani Dalla Volta, deportati e uccisi, e il Bigio dell’era fascista, perché questo miscuglio noi siamo stati. Smettiamo allora di spostare il male sempre fuori da noi, di attribuirlo sempre e solo agli altri, cosa che faceva peraltro molto bene con ottusa retorica l’Italia fascista, come ogni regime totalitario.
Se sarà stato il Bigio ad insegnarci a farlo, vorrà dire che si può imparare qualcosa anche da una statua né brutta né bella, come tale perfetta per ricordarci ciò che siamo.

Francesco Onofri, Piattaforma Civica Brescia

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