Brixia, i culti celtici nella città romana

Ai tempi di Roma, la nostra città aveva una fitta schiera di divinità, tra cui fate e credenze di epoca ancestrale.

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    di Sergio Re
    23 MercurioGettiamo ora uno sguardo sui culti e sulle divinità che regolavano l’esistenza quotidiana dei nostri antenati residenti a Brescia in epoca Romana. Sappiamo che la gente era legata ad una nutrita serie di divinità minori, tradizionalmente scorporate dal Pantheon. Numi che presiedevano alle più elementari operazioni della vita quotidiana, e non mi riferisco ai Lari e ai Penati tradizionali custodi della casa, ma proprio ad una sorta di emanazione spirituale delle cose e delle funzioni che, fin dalla nascita accompagnano tutta la vita del piccolo romano.
    Per la tranquillità della sua mamma, Educa e Potina sovrintendevano al pasto e alla poppata, Cuba lo proteggeva sotto le coperte, Ossipago e Carna presiedevano rispettivamente alla crescita delle ossa e delle viscere, Fabulinus gli faceva pronunciare le prime parole, Mens gli sviluppava la mente, Volumnus la volontà e Sentia gli ispirava la giustizia.
    Le citazioni sono frammentarie, ma potrebbero continuare per pagine e pagine, se pur dobbiamo dire che tutto questo valeva per il bambino romano, o almeno valeva per quello che cresceva in una famiglia, bene o male, interessata a romanizzarsi. La stragrande maggioranza della gente era invece costituita da servitori, schiavi, bottegai, trafficanti che — magari arricchitisi — non avevano comunque voglia di perdersi dietro questa complicata casistica di divinità assolutamente estranee alle loro tradizioni.
    24 Testa d'asino e culti di DionisoIl fatto è che la religione celtica, adeguatamente romanizzata nei vertici e tollerata negli strati inferiori, offriva già una altrettanto cospicua casistica di divinità (Alo, il dio degli ontani e delle betulle, identificato con il romano Saturno, poi Bergimo, Revino, Medilavino, Mainiale, Brasenno e la coppia Aburno e Aburna).
    Ma folta è anche la famiglia di emanazioni divine che, sia pur meno personalmente, lasceranno una traccia nella storia successiva improntando di sé tutto il Medio Evo. È il caso delle Fate, anzi dei Fati (esseri maschili che entrano nella storia delle divinità come i fuchi nell’alveare) e della Fate, che popolavano le selve e attendevano i giovani alle fonti, quando di maggio vi si recavano alla ricerca di fronde per le processioni.
    Poi c’erano le Matrone, divinità particolari che potremmo definire collettive, poiché comparivano e agivano sempre in gruppo senza alcuna individualità. Proteggevano come le Fate i boschi, le fonti, i fiumi, i campi o i villaggi, ma soprattutto presiedevano alla salute ed all’integrità morale della famiglia, tanto che alle Matrone dedicarono lapidi molte giovani bresciane di buona famiglia. E proprio alle Matrone e al loro culto familiare è legata una vicenda sicuramente oscura che sembra sia accaduta in quella località meridionale della città, dove nel ‘700 sorgerà la Villa del Labirinto dei conti Suardi.
    25 Mano pantheaI dubbi nascono dalla fonte storica delle notizie, quel seicentesco Ottavio Rossi (di cui abbiamo già parlato a proposito del capitolium), storico un po’ fantasioso e, in quanto ad affidabilità, giudicato dal Mommsen poco o nulla attendibile, ma in questo caso la fantasia lo ha forse aiutato a cogliere nel segno. Nelle sue Memorie Bresciane, pubblicate nel 1616, il Rossi riporta una iscrizione ora scomparsa e reperita a suo dire nella zona della Chiesa della Pace, il cui testo suonerebbe letteralmente così: “Le Matrone santissime a condanna di Tibulla ancor viva, moglie di Cenamo, per aver violato la fedeltà coniugale e la dignità paterna decretarono la sepoltura in una fossa nel bosco sacro”. Il testo della lapide è trascritto rigorosamente in latino, ma noi ci siamo serviti della traduzione offerta dall’Urbinati nelle lezioni tenute qualche anno fa presso la Civiltà Bresciana.
    Il fatto insomma è semplice: Tibulla, moglie infedele di Cenamo, è stata condannata a morte ed è stata sepolta viva, in osservanza al culto delle Matrone, sacerdotesse della moralità familiare. La storia è sempre stata presa sotto gamba, soprattutto per il discredito che il Mommsen aveva genericamente gettato su tutto il lavoro del Rossi, ma nel 1903 — nella zona della Villa il Labirinto — durante alcuni lavori di sterro venne alla luce una concisa lapide romana che diceva testualmente: “Marcello figlio di Spurio alla sorella Tibulla”, e nel 1954 fu la volta, sempre nella stessa zona, di una tomba con suppellettili femminili, che il Bonafini reputò riconducibili a Tibulla.
    Insomma, questa donna sembra sia realmente esistita, e fu un suo fratello che si preoccupò della sepoltura, ricordandola con una epigrafe che aveva tutto il sapore della frettolosità e della clandestinità, priva dei soliti richiami religiosi e delle consuete e deferenti esaltazioni della bontà, della religiosità e dell’attaccamento della defunta alla famiglia e soprattutto ai figli. Che il Rossi avesse proprio ragione?

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