Speleologa ferita, oltre 40 ore per il recupero

Cento gli uomini del Soccorso nazionale alpino e speleologico di sei regioni che hanno preso parte all'intervento. Anna Bonini, 36enne di Brescia, è ora in ospedale.

(red.) Più di 40 ore al buio di una grotta, poi la luce tenue dell’alba nella fredda mattina di novembre, accoglie Anna e i suoi soccorritori.
La disavventura della speleologa bresciana si è chiusa tra qualche applauso, le pacche sulle spalle dei soccorritori. La donna sta bene e le sue prime parole sono state per loro, gli alpini e gli speleologi addestrati per questi interventi. ”Sono stati i miei eroi”, ha detto appena risalita alla luce del sole, “con loro non ho mai avuto paura”.
Ci sono volute oltre 36 per riportare in superficie Anna Bonini, caduta, a 250 metri di profondità, nel crepaccio acquoso della grotta ”’Omber del bus del zel” (in dialetto “grotta del buco del gelo”), domenica alle 14. Un volo di 3 metri che le ha causato una doppia frattura alla caviglia sinistra.
Impossibile per gli amici che erano con lei aiutarla. Sono dovuti intervenire i corpi specializzati dei soccorsi che alle 18 di domenica hanno cominciato il lento cammino per uscire da sotto terra. Anna, sedata, la caviglia steccata, un casco in testa,è stata assicurata ad una barella. Un percorso di 3 chilometri che gli appassionati percorrono tra le 2 e le 3 ore è diventato un complicato cammino di pochi metri all’ora.
Per allargare gli spazi in cui la barella non passava sono state utilizzate anche delle microcariche di esplosivo. Squadre di 40 uomini, tra cui fisso un medico, si sono dati più volte il cambio. Stanchi, sporchi di fango, riportata Anna in superficie, hanno raccolto le loro cose sono saliti sui loro mezzi e se ne sono andati. ”Mi raccomando”, ripeteva uno di loro con il megafono, “non lasciate in giro neppure una lattina”. I miei eroi li ha definiti la 36enne bresciana, che ha tenuto tutti con il fiato sospeso per due giorni e due notti.
Ora è ricoverata all’ospedale Civile di Brescia, dove dovranno sistemarle la caviglia rotta. La sua passione per la speleologia è piuttosto recente. Da poco aveva terminato il corso. ”Forse era meglio se aspettava ancora un po’ prima di cimentarsi con queste grotte”, ha detto un tecnico del soccorso alpino. L’Altopiano di Cariadeghe, che non supera in altezza i 700/800 metri, è definito monumento naturale proprio anche per le sue grotte.
Chilometri e chilometri di tunnel, che scendono a centinaia di metri di profondità e dove, come in un cantina, la temperatura è sempre stabile, 7 o 8 gradi.
Il giro scelto da Anna e i suoi amici non è tra i più difficili, ma neppure adatto ai principianti. La prima parte, una settantina di metri è una discesa a gradini, aperta a tutti. Poi un cancello sbarra l’imbocco per le grotte vere e proprie.
”Lo so, ho fatto uno sciocchezza, ma è stato un incidente”, ha ammesso Anna uscita dalla grotta. “Ma non ho mai avuto paura, soprattutto dopo che sono arrivati loro, i soccorritori, sono stati bravissimi, organizzatissimi”. Nelle 36 ore trascorse insieme, Anna ha soprattutto dormito. ”Lo facevo anche per non creare ulteriori fastidi, me ne sono stata buona buona, mentre loro lavoravano”, ha raccontato. “Quando ero sveglia invece parlavo un po’ con tutti, abbiamo parlato di tante cose”.
Quando i giornalisti le hanno chiesto se continuerà a coltivare la sua passione per la speleologia ha detto: “Non lo so, ora sono un po’ frastornata, voglio guarire e tornare dai miei”. Poi ha subito aggiunto: ”Certo, che torno nelle grotte, del resto chi cade deve rialzarsi e continuare”. ”Brava, così si fa”, la hanno incitato gli speleologi soccorritori caricandola sull’ambulanza, definiti  “competenti, umani ed eroi” dalla stessa donna.
Cento gli uomini del Soccorso nazionale alpino e speleologico di sei regioni che si sono dati il cambio al suo fianco in grotta e in superficie per coordinare l’intervento, negli stretti passaggi sotterranei da allargare con micro esplosioni perchè lasciassero passare la barella e che le hanno salvato la vita riportandola in superficie.
”Competenti” perchè grazie alla loro professionalità, interventi del genere si eseguono ormai da anni e con sempre minor margine di errore, è stato possibile superare ciascun pozzo della grotta con un complesso quanto sicuro sistema di carrucole e corde per trasportare la barella. ”Umani” perchè, a oltre 200 metri sotto terra, immersi nel buio e in un’umidità che ti bagna le ossa, sono stati anche capaci di essere di compagnia. ”Eroi” perchè le hanno salvato la vita. Persone straordinarie che per recuperare e salvare Anna hanno chiesto un permesso sul lavoro, che per 48 ore hanno lasciato a casa figli, mogli e fidanzate. Ma anche mariti e fidanzati, perchè la prima a riemergere dall’imbocco dell’ Omber del bues del zel’ e’ stata una giovane speleologa. E tra i suoi colleghi della prima squadra che è riuscita a raggiungere Anna c’era anche Mauro Ravasio, capo della nona delegazione del Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico della Lombardia.
Tra i primi ad arrivare sul posto intorno alle 22 di domenica, Mauro è stato anche il coordinatore delle operazioni di uscita della barella dall’ultimo tunnel questa mattina all’alba. Nella grotta è entrato domenica per uscirne ieri sera. ”Quando siamo arrivati da Anna”, ha raccontato quando la 36enne era ormai al sicuro in ambulanza, “era completamente bagnata”. ”I due ragazzi che erano rimasti con lei”, ha raccontato, “l’avevano adagiata su una roccia sporgente per tenerla sollevata dal corso d’acqua che passava lì sotto”.
Mauro ha raccontato, e con orgoglio, che ormai nella grotta Anna aveva perso la cognizione del tempo, ”non distingueva più il giorno dalla notte”. Solo a lei era concesso il lusso di addormentarsi, o meglio di riposare: ”Se la vedevamo dormire per troppo tempo”, ha spiegato Mario il capo delegazione, uno dei cento angeli custodi di Anna che hanno vegliato anche sul suo sonno, “eravamo costretti a svegliarla: nelle sue condizioni il sonno può aggravare l’ipotermia o essere indizio di setticemia”.

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