Brescia Noir: il Delitto dell’Alabarda

Una nuova rubrica per quiBrescia.it. Diego Serino racconta gli omicidi più efferati avvenuti in provincia di Brescia. La prima storia è ambientata a Desenzano.

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Una nuova rubrica per quiBrescia.it. Diego Serino racconterà ai nostri lettori i delitti più efferati e più famosi avvenuti negli anni scorsi nella nostra provincia. La prima storia noir raccontata parla del Delitto dell’Alabarda, avvenuto a Desenzano del Garda il 29 marzo 1947. 

di Diego Serino
Una storia che sembra un film giallo. Per lo scenario: una notte di tempesta in una villa sul lago. Per il numero di presenti: sei, quasi si stesse giocando a Cluedo. Per la conclusione: due spari nel buio, un urlo di dolore e la morte. Ma è tutto vero. Siamo a Desenzano del Garda, ridente cittadina sulle rive del più bel lago d’Italia. Siamo a fine marzo, quasi ad aprile, ma il tempo non è quello ridente delle primaverili serate lacustri. Piove e tanto, è una di quelle notti in cui fra tuoni e lampi, è bello stare in casa ed andare a letto presto. Così hanno deciso di fare a casa Malfatti. Nella villa sono in sei: c’è il conte Giovanni Pellegrini Malfatti, proprietario dell’edificio, sua sorella Maria Paola accompagnata dal consorte Alfredo Faotto, gli amici Giuseppe e Guido Padovani, quest’ultimo con la moglie, Carmisca Dorich. Dopo cena tutti a letto.

Alle due del mattino succede qualcosa. Il conte bussa alla porta della camera della sorella, cerca il marito Alfredo, vuole che lo accompagni perché ha sentito dei rumori provenire dal giardino. I due uomini scendono le scale, arrivano nell’ampio atrio e decidono di separarsi. Giovanni esce dalla porta di servizio, Alfredo da quella principale, percorreranno ognuno il lato opposto dell’edificio. Il tempo non è clemente, c’è buio, la pioggia è incessante, il vento gelido. All’improvviso un lampo, poi due colpi, infine un tuono. Il tempo di comprendere che i colpi uditi sono spari che tutti gli ospiti escono dalle stanze. E’ Giuseppe, nonostante il terrore, a prendere coraggio: imbraccia un’alabarda ed esce, accompagnato dagli altri dal portone principale. La scena che si prospetta ai loro occhi è raccapricciante.

Il conte è riverso a terra con il volto maciullato. E’ vivo ma ancora per poco, pochissimo, poi muore. Alfredo è accanto a lui, dice di aver visto due ombre. Vicino un’altra alabarda, con la punta piegata, e un guanto da uomo. Cosa è successo? Chi è stato? Con che arma è stato ucciso il conte?> L’uomo giace a terra sicuramente colpito da un corpo contundente, come da un’arma da fuoco in volto, vicino due bossoli. Un enigma, anche perché nel cervello del conte di bossoli non se ne trovano. L’alabarda è piegata ma non è sporca di sangue. La pistola salta fuori addirittura ventitré giorni dopo. In una siepe, pulita come se fosse stata messa lì da poco. Gli ospiti sono tutti sospettati, vengono fermati Alfredo Faotto, Giovanni Pellegrini e Maria Paola. Ma le indagini puntano infine sul cognato del morto. Le prove sono indiziarie: i bossoli corrispondono all’arma rinvenuta, ma chi l’ha nascosta nella siepe? La pioggia ha cancellato ogni traccia. Testimoni non ce ne sono. Un movente? Chi accusa Faotto, dice che quello c’è: si mormora che il conte stesse per sposare una donna appena conosciuta che, tuttavia, non verrà mai identificata, e che Faotto temesse di perdere la sua eredità che sperava passasse alla moglie.

Faotto, non è certo uno stinco di santo, da ragazzo aveva anche rubato in casa di una donna che l’aveva ospitato, e da adulto i suoi traffici di titoli, azioni e gioielli non erano del tutto cristallini. Problemi di soldi, tuttavia, non ne aveva, proprio grazie ai suoi affari, ed aveva appena vinto una causa milionaria. Comunque sia, dopo due anni di indagine si arriva al processo. E’ il 12 maggio del 1949. Faotto si proclama innocente. Per la corte d’assise non è così: e’ stato lui. Ergastolo. Anche la moglie lo lascia e si costituisce parte civile. Si arriva al nuovo processo il 3 aprile del 1952. I legali di Faotto le provano tutte per salvare il loro assistito dal carcere a vita, e si presentano con un nuovo testimone. Un tale, Battista Profeti, carcerato in Sardegna, avrebbe confessato al proprio compagno di cella, di essere lui il vero assassino dell’alabarda. Profeti viene interrogato, dice di aver detto di conoscere alcuni particolari, non di essere stato lui. Si attende per il confronto. Giusto il tempo che Profeti finisca di scontare la pena per cui era in carcere e sparisca nei meandri della storia.

Quando, ormai, per Faotto sembra tutto perduto, dal nulla appare una lettera anonima, su di essa si parla di un biglietto nel quale un certo signor Bonfatti, mai identificato, scriveva ad un tal signor Risso, anche questi rimasto sconosciuto, di aver ucciso un terzo non meglio identificato tal Marini, perché questi l’aveva riconosciuto come l’assassino del conte Malfatti. Realtà? Fantasia? I giudici propendono per la seconda: fantasie di un mitomane. Per Faotto la libertà sembra sempre più lontana quando si apre una nuova pista: quella politica. Il conte, durante il ventennio fascista era stato Podestà di Desenzano. A portare le indagini lungo questo nuovo percorso è un commerciante, Azeglio Loda, che “per scrupolo”, come lui stesso dichiara al tenente Conforti, presso la caserma di Desenzano, vuole raccontare la sua storia. “Il conte era molto preoccupato” dice il commerciante “perché Tito gli e l’aveva giurata”. Tito, per intenderci, è Josip Broz Tito, partigiano e uomo politico Jugoslavo, in Italia tristemente noto per i massacri delle foibe. Il conte era stato amico anche di Italo Balbo prima che questi perdesse la vita nei cieli di Tobruk a causa dal fuoco amico. Che la morte del conte dipendesse dal passato, da quell’odio di una guerra tra fratelli non ancora sopito? Per i giudici non è così. Per loro l’assassino è Faotto. L’uomo viene condannato all’ergastolo. 21 anni dopo ottenne la grazia vivendo gli ultimi dieci anni della sua vita da uomo libero.

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