Morto Delfino, generale “squalo” dei segreti italiani

Personaggio controverso, fu decisivo nella cattura di Totò Riina, ma venne arrestato per truffa nel sequestro Soffiantini.

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    (red.) Si è spento a 78 anni, martedì 2 settembre, in una residenza per anziani a Santa Marinella, sul litorale laziale, dove da tempo combatteva con una grave malattia, il generale dei carabinieri Francesco Delfino, personaggio in prima linea nei  momenti chiave della storia italiana: dalle stragi nere al terrorismo rosso, dalla lotta alla mafia ai sequestri di persona (tra cui quello dell’imprenditore bresciano di Manerbio Giuseppe Soffiantini, rapito nel giugno 1997 e liberato il gennaio successivo), dalle missioni top secret nei paesi arabi ai rapporti più delicati con l’intelligence americana.
    Una carriera bivalente, coronata da successi e da polemiche, una figura controversa nei ranghi dell’Arma dei Carabinieri: amato dai collaboratori, definito “lo squalo” da rivali e detrattori.
    Si distinse per avere ottenuto le informazioni decisive per la cattura di Totò Riina ma finì anche sotto processo per soldi sottratti durante il rapimento dell’industriale manerbiese Soffiantini.
    Delfino, figlio di un maresciallo calabrese che in Aspromonte era diventato il più celebre cacciatore di latitanti, era nato a Platì e, seguendo le orme paterne, si era arruolato raggiungendo il grado di brigadiere. Solo in un secondo momento passò in Accademia per diventare ufficiale.
    In Sardegna, alla fine degli anni Sessanta, quando l’Anonima cominciava a trasformare i sequestri rurali in un’industria, fu lui a elaborare le prime tattiche efficaci di contrasto. Poi approdò a Brescia, dove da capitano condusse le indagini sulla strage di Piazza della Loggia del 1974.
    Trent’anni dopo, le istruttorie sulla strategia della tensione hanno riletto la sua opera e il generale, uomo dei Servizi segreti, è stato accusato di avere depistato e coperto i terroristi di destra. E’ stato quindi rinviato a giudizio per concorso in strage e poi assolto in appello, senza che la procura facesse ricorso.
    A Milano, nel 1977, ha guidato il reparto operativo nel contrasto delle Brigate Rosse in Lombardia. Nel 1994 il primo grande pentito della ndrangheta al Nord, Saverio Morabito, sostenne che, grazie ai suoi contatti calabresi, Delfino in quel periodo fosse riuscito a infiltrare un giovane reggino nelle Br, proprio durante il rapimento di Aldo Moro. Ma le indagini dei pm milanesi non riuscirono a trovare riscontri e la vicenda finì archiviata.
    Dal giugno 1978 nel Sismi, dove restò per nove anni, Delfino si occupò della morte di Roberto Calvi, avvalorando la tesi dell’omicidio. Poi collaborò per la cattura di Francesco Pazienza e Flavio Carboni, i faccendieri che si muovevano nella ragnatela della P2.
    Successivamente è stato al comando dei carabinieri del Piemonte, dove, nel 1993, incontrò il mafioso Balduccio Di Maggio, arrestato a Novara, che convinse a collaborare ottenendo le indicazioni decisive per la cattura a Palermo di Totò Riina.
    Il declino personale di Delfino iniziò nel 1998, quando emerse la sua trattativa parallela per la liberazione di Giuseppe Soffiantini, un imprenditore bresciano che conosceva da anni. Il generale si era fatto consegnare 800 milioni di lire in contanti dalla famiglia per arrivare ai rapitori sardi, ma il denaro scomparve. Venne arrestato e condannato per truffa aggravata, e sospeso  dal servizio dall’Arma. Il congedo con il grado di generale di brigata arrivò prima della sentenza della Cassazione.
    Delfino è autore del libro “La verità di un generale scomodo” nel quale ha ipotizzato l’esistenza di un “Grande Vecchio”, un burattinaio delle trame italiane, citando episodi che vanno dalla morte di Moro alla strage della questura di Milano, con allusioni al ruolo degli americani, dei sovietici e di Israele.
    Ora s’è portato nella tomba tutti i suoi segreti.

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