La città vecchia oltre lo specchio magico

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di Mario Ubiali

Abbiamo già fatto parecchie passeggiate insieme, ogni volta scoprendo quanto la destinazione di questi svaghi fosse misteriosa e sconosciuta. Una finestra aperta a precipitarci, come sempre fanno la storia e l'arte, in un altro mondo e un altro tempo. Eppure questa volta più che mai chi scrive vorrebbe che il lettore rubasse una serata tiepida alla routine, alla tivù, al sapore plastificato di un certo tempo libero, per scoprire un luogo dove la magia è qualcosa di tangibile. Non fatelo per il misero narratore, ma per il semplice piacere di camminare attraverso lo specchio magico dietro il quale Brescia nasconde il proprio Paese delle Meraviglie.

Il primo velo da scostare
Passo per passo, addentriamoci in via Cattaneo. Lasciamo la mole candida e quasi opprimente del Duomo Nuovo, incrociando distrattamente la figura elegante e maestosa della Biblioteca Queriniana. E' arrivato il tardo pomeriggio di una domenica precocemente primaverile. Lungo la stretta via ascoltate il richiamo dell'antica Brixia e, a poco a poco, lasciatevi avvolgere dalla sensazione delle tante strade che corrono esclusivamente parallele al decumano o a esso perpendicolari, una ragnatela urbana costellata di ricordi malinconici e intimi come solo l'abbandono può rendere le vecchie pietre. La discesa nelle viscere della città è solo all'inizio e le tappe del cammino insegnano come questa città accolga il viandante curioso. Brescia inizia sempre con l'intento di scoraggiarvi e confondervi. Infatti incontrate la facciata giallina della chiesa di San Benedetto, di costruzione antecedente l'anno 1000. E' chiusa e non ha affatto un bell'aspetto. Da molti anni è sconsacrata. C'era una galleria d'arte qui, un tempo. E adesso? Nessuna risposta visibile.
Proseguiamo e subito lasciamoci distrarre dalla Torre d'Ercole, poco più avanti: dignitosa come un vecchio guerriero, massiccia, un tantino tetra. Sorge quasi all'incrocio tra cardo e decumano, mozzata dalla follia del tiranno Ezzelino Da Romano nel 1258. Ha ragione d'esser imbronciata, quindi. Proprio sull'altro lato della strada, stranamente a sghimbescio, la chiesa di San Marco sbuca dal tessuto urbano con la sua splendida abside romanica e i vezzosi archetti di cotto. Torniamo per un momento all'epoca della dominazione veneta e al giorno di San Marco, quando l'intero Capitolo della Cattedrale veniva in processione fin qui e il Conte di Lodrone per tradizione doveva donare all'Offertorio una torcia di cera vergine. La processione si dissolve nel presente e annotiamo di aver incontrato due edifici romanici in 50 metri. Due pezzi di storia che dormono indisturbati. Non saremo certo noi a destarli: siamo alla ricerca del luogo dal quale irradia lo strano silenzio delle 6, sotto il cielo perfetto, tagliato a nastri dai tetti scuri.

La magnificenza del Foro
Ma non lasciatevi deprimere dalla malinconia dei primi incontri. Così, dietro l'angolo (girate a sinistra, vi manca poco…), arriva la seconda tentazione della Leonessa. Si stende infatti di fronte a voi la magnifica piazza del Foro. Sullo sfondo del colle svettano le bianche colonne del Capitolium, visione romantica di rovine e vegetazione, gatti randagi e lucine accese lontano, come in un presepe. Da solo questo spettacolo basterebbe a ingannare il più desto dei viaggiatori, gettandogli in pasto abbastanza storia da strozzarlo. Alla sua sinistra infatti è Palazzo Martinengo Cesaresco, vestito a festa per la mostra di turno, mentre a destra San Zeno in Foro chiude gelosamente la propria bellezza settecentesca nell'abbraccio di una suntuosa cancellata di ferro battuto. Ma guai a fermarvi qui, in questa magica sera. Il luogo che vi attira con un canto silenzioso non è lontano, ma dovete proseguire nella direzione giusta. Avete mai notato il vicolo che s'insinua tra San Zeno in Foro e quel che rimane dello stesso Foro? Si chiama Vicolo Lungo, ha un'aria dimessa. I suoi lampioni e le alte mura che si richiudono sui vostri passi vi riempiranno della vaga inquietudine che caratterizza le scoperte personali.


Il cuore silenzioso della città
Da qui in poi siete dove volevamo condurvi, al di là di qualsiasi guida turistica o dissertazione, nelle strade senza abbaglianti vestigia, tra giardini nascosti da cui sbucano lunghe rose rampicanti e porte consunte dietro le quali mormora chissà chi. Vicolo Lungo scivola in leggera discesa fino a un incrocio dove siede il silenzio. E' tutto chiuso, morto, qui. Siete dove niente è davvero cambiato e le pietre grezze dei muriccioli vi lambiscono, forza di un passato che scrosta gli intonaci e cosparge i ciottoli della loro polvere. Ovunque vi volgiate a quest'incrocio non vedete alcunché di moderno, né macchine, nemmeno passanti. Provate l'ebbrezza di un appuntamento unico con Brescia. Voltatevi: una lapide ricorda la casa nella quale visse il Moretto. E' vicolo San Clemente, un misterioso budello che sconvolge qualunque regolarità della topografia romana. Contate le lampade di ferro battuto, svoltate angoli improvvisi ed ecco, sotto fronde appena rinverdite dalla primavera, la facciata sobria della chiesetta. Qui giace Moretto, tra alcune delle sue più belle tele. Da qualche parte sono nascosti anche due chiostri. Ma da qui si vedono solo muri, muri e silenzio, e un vecchio affresco scrostato nella lunetta sovrastante il portone. Agostino Gallo abitò dietro quelle finestre: altra lapide, altro illustre defunto. Ma la luce è linda, non ha nulla di triste. Un vago sentore di legna arsa vi risucchia verso la parte terminale del vicolo, un brivido finale tra altissime muraglie di mille pietre, poi un volto basso, travato. E' via Agostino Gallo, appunto. Ma subito questa diventa via Trieste e allora ricompare la gente.
Siamo tentati di fermare il tizio placido con gli occhiali e il quotidiano sotto braccio, per chiedergli di entrare anche lui laggiù, di fare a ritroso quel percorso, per sapere se siamo i soli a emozionarci così profondamente nel cuore vero di Brescia. Ma lasciamo perdere. Non importa, ora ve l'abbiamo raccontato e qualcuno potrà tentare quel breve e lunghissimo viaggio immaginario. A passi lenti, naturalmente.

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