Ebengardo, il malinconico fantasma di Sirmione

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di Mario Ubiali

Chissà quanti di voi hanno attraversato almeno una volta il grande portone che introduce alla rocca Scaligera di Sirmione, magari attorniati da una chiassosa e colorata folla di turisti tedeschi, naso all'insù per ammirare le torri merlate sullo sfondo di una bella giornata di sole. Chi immaginerebbe che quel luogo che oggi ospita spensierate gite domenicali è stato in passato teatro di un dramma tragico e sanguinoso? Ebbene, sappiate che, oltre tutto, il vostro chiasso ha probabilmente infastidito un abitante davvero molto speciale del castello: Ebengardo, fantasma di un nobiluomo morto circa sette secoli fa.

Una storia d'amore su uno sfondo cupo
Scostiamo le cortine della leggenda e cerchiamo di capire meglio quale triste ricordo si celi dietro le lunghe passeggiate del fantasma di Ebengardo, sovente avvistato nelle notti di tempesta mentre si dispera lungo le mura, credendosi forse parente alla lontana di più famosi principi danesi. Certo non poteva aspettarsi granché da quel castello. La Rocca, voluta da Mastino I della Scala per presidiare il Lago di Garda nei turbolenti anni delle guerre tra signorie, aveva iniziato con il piede sbagliato la propria storia, servendo da rifugio agli eretici Patarini della zona. Almeno fino a che gli Scaligeri non li avevano trascinati in malo modo sino a Verona, polverizzandoli (è il caso di dirlo) nel celebre rogo del 1278. Forse pensando che la leggenda nera potesse essere fugata dai nobili sentimenti, Ebengardo e Arice, sposi romantici, avevano preso dimora proprio nel mastio di Sirmione. Si sa: le leggende raramente sono a lieto fine e quella della coppia non avrebbe fatto eccezione.

Notte di tempesta alla Rocca
Siccome le cose orrende non accadono mai all'ora di pranzo d'una luminosa giornata primaverile, ecco arrivare tra le imponenti torri e sull'acqua nera del fossato una notte di terribile tempesta. Il vento produce orribili gemiti lungo i corridoio fiocamente illuminati da torce. Nel salone principale un grande camino si sforza invano di fugare i presagi funesti della bufera. Ma ecco, la servitù annuncia che al portone sprangato un individuo a cavallo chiede asilo. Dice di essere Elaberto, Marchese del Feltrino, bisognoso d'un tetto per ripararsi dagli isterici elementi. Arice ed Ebengardo, forse simpatizzando per l'individuo con un nome infelice quanto il loro, lo invitano ad entrare e prendere alloggio in una delle molte stanze preparate per gli ospiti.

L'incantesimo di Arice e la follia del marchese
Dovete sapere che, a dispetto di quel nome un po' buffo, Arice è una donna bellissima, aggraziata e sensuale al tempo stesso. Intravistala alla calda luce del fuoco, il Marchese s'innamora quindi in un batter d'occhi. Vorrebbe godere della sua compagnia, sapere di più della fragile donna misteriosa che senza quasi vederlo si è impadronita del suo cuore. Ma riesce a malapena a rivolgerle stentate parole, perché è tarda notte e ciascuno, come era uso in quei tempi senza tivù, si ritira nella propria camera. Elaberto non riesce però a trovar requie e si aggira in calzamaglia davanti al giaciglio intonso. Il pensiero fisso della setosa pelle della deliziosa ospite lo spinge letteralmente alla follia. Decide che deve averla e sbuca sul deserto corridoio, alla ricerca della stanza della ignara dama. La trova in fretta, spalanca la porta e, sorprendendo Arice nel sonno, la desta con profferte d'amore. Immaginiamo che il virile marchese non fosse uomo da smancerie e che l'arte del corteggiamento sia passata in quel frangente in secondo (o terzo) piano: Arice urla e si divincola, cercando di allontanare il bruto.

Epilogo di sangue
A quel punto il perfido Elaberto perde davvero le staffe. Estrae un pugnale e uccide la sfortunata Arice, rea solamente d'essersi dimostrata virtuosa. Le strazianti grida dell'amata strappano Ebengardo al sonno. La violenta tempesta giunge al culmine. Rombi possenti scuotono le mura, mentre lampi gelidi e sinistri fotografano la corsa disperata del giovane sposo. E' troppo tardi però, perché Arice giace in un lago di sangue. I due uomini lottano accanitamente, poi il desiderio di vendetta ha la meglio. Il crudele Elaberto, serpe alla quale i due innamorati avevano ingenuamente spalancato le porte della propria dimora, è ucciso dal suo stesso pugnale. Mentre la pioggia sferza la severa mole del castello e la notte si appresta a cedere il passo a un grigio giorno, Ebengardo posa la lama che ha fatto a brandelli la sua vita, fugando per sempre il suo sogno di felicità.

L'eterna maledizione del rimpianto
Come se la tristezza non bastasse, nemmeno la morte di Ebengardo ricongiunge i due amati. Ella, purissima, canta in Paradiso, mentre lui, reo d'omicidio, è condannato a rimanere tra i vivi in guisa di fantasma. Così ancora oggi, nelle notti di tempesta, la trasparente entità si aggira disperata per le stanze del castello, cercando la bella Arice e piangendo la notte maledetta nella quale non seppe proteggerla dal male che aveva bussato alla loro porta, assumendo le fattezze inquietanti d'un nero cavaliere ritto nella tempesta.

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