Primo Maggio; la festa del lavoro…che non c’è

Disoccupazione giovanile che galoppa e caporalato che dilaga. Ci sono, poi, le morti sul lavoro che sono una vera e propria piaga sociale. 15 mila Infortuni nel Bresciano.

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di Giovanni Merla

La chiamano festa dei lavoratori, ma in realtà il 1° Maggio, ormai da qualche decennio, si è trasformato in una cerimonia funebre. Con la disoccupazione schizzata al 12% e quella giovanile (15-24 anni) che supera il 40% l’Italia conta oltre 3 milioni di disoccupati e circa 10 milioni di poveri. Oltre a questa gravissima epidemia sociale, si deve fare i conti anche con il problema della sicurezza.

Nessuno sa con certezza quanti siano i morti sul lavoro nel nostro Paese, perché l’Inail, che è un istituto assicurativo, elabora e rileva soltanto i dati che riguardano i propri associati. Solo in Lombardia nel 2016 sono morte 120 persone mentre stavano lavorando. Una ogni 3 giorni. Gli infortuni denunciati ammontano a 116.000 e Brescia, con oltre 15.000 casi, si piazza al secondo posto regionale dietro Milano.

In notevole aumento anche le tecnopatie, malattie causate da professioni rischiose e usuranti. Di Lavoro si dovrebbe vivere, non ammalarsi o peggio ancora morire. Si muore nei cantieri, nelle industrie, sulle strade e nei campi. Si muore, mentre si cerca disperatamente di portare a casa il pane, per garantire futuro e benessere alla propria famiglia.

Ma non sono soltanto incidenti e disoccupazione a indebolire il sistema lavorativo italiano. A questo dobbiamo aggiungere il lavoro nero, lo sfruttamento e i diritti dei lavoratori, che negli anni, invece di aumentare, vengono sistematicamente ridotti.

In Italia esistono zone franche dove tutto è concesso. Penso al caporalato agricolo che schiavizza migliaia di persone nei campi. Uomini e donne trattati come oggetti, fantasmi costretti a raccogliere frutta e verdura per 12-15 ore al giorno e pagati con pochi euro. Oppure agli eserciti infiniti della manodopera invisibile e clandestina impiegati nell’edilizia. Per non parlare degli operai che lavorano nelle grandi industrie alimentari. Assunti da cooperative intestate a prestanome, vengono obbligati a turni massacranti. Inchiodati alla catena di montaggio, in una sola ora devono tagliare oltre mille pezzi di carne. Chi non rispetta i tempi è licenziato.

E ancora, dipendenti assunti con un contratto part-time, ma realmente impiegati a tempo pieno, oppure lavoratori in nero. Dai ristoranti, ai bar, dalle piccole imprese alle grandi aziende. Dal settore turistico alla metallurgia, dalla logistica alle società di servizi. Spesso accade che al momento della firma di un contratto di lavoro, il datore “obbliga” il dipendente appena assunto a firmare una lettera di dimissioni, ovviamente omettendo la data. Una sorta di jolly che il padrone potrà usare al momento opportuno. Un ricatto psicologico a tutti gli effetti.

Oltre a tutto questo c’è la questione femminile, con la maternità e tutto ciò che ne consegue. Vero e proprio incubo di chi assume. Moltissime giovani donne, prima di essere arruolate in un’azienda vengono sottoposte a interrogatori per capire se hanno intenzione di avere un figlio.

Poi ci si chiede come mai l’Italia è lo stato con meno nascite d’Europa. Questa realtà inquietante ha trasformato le persone in numeri, in oggetti da usare e buttare via. Ci ha riportato indietro nel tempo, quando esistevano i padroni e i servi.

Penso alla dialettica servo-padrone, espressa divinamente da Hegel. Il padrone afferma la propria indipendenza sul servo, ma il servo con il suo lavoro, garantisce la superiorità al padrone. Quindi la subordinazione si rovescia: il padrone diventa servo, perché sopravvive soltanto grazie al lavoro del suo dipendente e il servo diviene padrone, perché senza di lui non ci sarebbe produttività.

Queste idee, partorite oltre 200 anni fa, ma decisamente attuali, dovrebbero essere la scintilla per far scattare il cambiamento, l’inversione di tendenza e soprattutto l’indignazione dei lavoratori. Perché poca sicurezza, pochi diritti e molti doveri sono i principali ingredienti dell’oppressione.

Tutto questo e molto altro racconta che il capitalismo moderno sta per implodere, distrutto dai suoi stessi principi: profitto ad ogni costo, accumulo di ricchezze, sfruttamento e iperproduzione. Occorre ripensare e proporre velocemente un’altra ricetta economica per garantire equità, giustizia sociale e benessere.

L’unico binario percorribile per inseguire un futuro migliore e regalare alle nuove generazioni un mondo del lavoro diverso è la legalità, la dignità e il rispetto della vita. Ideali limpidi da proteggere e rivendicare ad ogni costo.

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